"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

“Più ci si avvicina ai tempi moderni - nell’indagine storico-storiografica sulla fede cristiana - e meno la vita liturgica è compresa ed apprezzata”, come affermava il padre Germain Morin.
E ancora: “A misura che il mondo invecchia, esso diventa sempre più utilitarista; la vita più ‘occupata’; l’audacia dei nemici della Chiesa si enfatizza “.
La tensione e la preoccupazione per la preghiera nella Chiesa (‘chi prega si salva’…) è sempre più lasciata ai ‘cultori di scienze archeologiche o agli amanti dei formulari fini a sé stessi.
Chi ‘sa’ quali sono i bisogni veri del mondo contemporaneo (e questo ‘sapere’ lo si attinge dai manuali di sociologia, psicologia, economia, marketing, e via dicendo) piuttosto che soffermarsi sull’importanza della compunzione del proprio cuore, deve correre là dove ‘vè più bisogno.
La vita liturgica fa la figura di un’anticaglia, di qualcosa fuori di moda per esprimere i propri sentimenti, con strumenti fuori della realtà, infine il silenzio e la devozione, a partire da una celebrazione rispettosa della Eucarestia, sono come abiti inusitati, inadatti a chi corre dentro e fuori da una metropolitana.
Il padre Germain Morin con lucida tristezza doveva rilevare che “Non vi è più nessuno che si renda conto della connaturalità della preghiera liturgica con l’anima cristiana e si decide che sia una ‘vocazione’ speciale quella che per un periodo lunghissimo, più di milletrecento anni è stato invece il comune patrimonio di tutta una società”.
L’identificazione dell’utilità di un fatto o di un’azione soltanto dal punto di vista ‘pratico’ (ma chi prega sta meglio anche fisicamente e psichicamente, quindi è utile), non è stata la concezione dei nostri Padri.
Sant’Agostino si compiaceva di ripetere: Cantare amantis est, cantare è proprio di colui che ama.
La parola, le sole parole, sono sufficienti all’uomo per esprimere la somma ordinaria dei propri pensieri, forse… Ma quando un sentimento più forte o anche solo più dolce dell’ordinario si impadronisce del nostro cuore, allora come d’istinto il tono monotono del linguaggio abituale non soddisfa più e ci si mette a cantare, stonati o intonati che si sia.
Il canto - e la Liturgia è canto, il salmodiare nasce esso stesso come canto - sia che si preghi sia che si celebri, è prima di ogni altra cosa una manifestazione d’amore e non una manifestazione qualunque. Tutto ciò a maggior ragione quando ci si rivolge a Dio.
Cantano non a caso soprattutto i piccoli, i bambini e anche i giovani, mentre a misura che l’uomo invecchia e le disillusioni si moltiplicano non tarda ad apparire una sorta di disincantamento in cui l’entusiasmo, l’amore cioè si raffredda quando non svanisce del tutto.
La nostra società è invecchiata. Se canta, a Sanremo magari, non canta ma fa rumore.
Mentre il nostro mondo moderno sopraffatto dal suo materialismo egoisticamente finalizzato mostra un volto sempre più decrepito, la vita liturgica della chiesa, per quanto oggetto di colpi e tradimenti continui, appartiene invece all’eterna giovinezza della Chiesa: Mistero senza età.
Cantare le Lodi di Dio vuol dire risalire i secoli per romperla con le nostre concezioni individualistiche, riprendendo contatto con chi ci ha preceduto dentro un legame che salva dal vuoto in cui il modernismo arrogante ci ha rinchiuso.
È per questo che il padre Morin si spiega l’origine di tutte le letterature con la laude sacra.
È infatti l’espressione del primo amore delle nazioni che ancora non sanno di esserlo.
Scendendo lungo la storia letteraria dei popoli, purtroppo, si vede che il lirismo religioso è sempre meno coltivato, a misura che gli spiriti si normano su un a lettura ‘positiva’ della realtà con i suoi studi di filologia, critica, matematica…
Se il ‘coro’ non ha più la posizione di preminenza che un periodo lunghissimo nella storia della Chiesa gli attribuiva, non poco dipende da gesuitismo che, fin dalla sua fondazione ha persino elaborato un modello architettonico di chiesa ove lo spazio dedicato a questa funzione fosse del tutto eliminato.
La chiesa doveva diventare essenzialmente il luogo dell’indottrinamento, dall’alto di un pulpito, di una massa indistinta sedotta comunque sulla base dell’emozione e di un sentimento puramente individuale della fede.
La posizione di preminenza del coro, cioè della preghiera, corrisponde semplicemente a quella che gli era riservata nella stima e nella vita giornaliera dei primi cristiani.
Ma l’individualismo della pietà, forse più accattivante nell’immediato di quel folkloristico talora entusiasmo di popolo a cerimonie e devozioni ‘locali’ e no, ha significato la fine della pietà tout court.
Secondo il padre Lambert Beaudouin, le generazioni che hanno impiegato secoli a disimparare la pietà tradizionale, vi metteranno secoli e reimpararla.
Se, come diceva recisamente  Papa Pio X, “Perché il  vero spirito cristiano rifiorisca in tutti i modi e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario innanzitutto provvedere rima di ogni altra cosa alla santità del tempio dove tale spirito attinge alla sua principale fonte, cioè la liturgia dei sacrosanti Misteri e la preghiera pubblica e solenne della Chiesa” allora fare amare e praticare la Liturgia  come vita propria di ogni cristiano, vuol dire informare la pietà al senso cattolico che è il senso di Cristo.
Fu un altro grande papa preconciliare a gridare nella sua enciclica appositamente dedicata che “La liturgia non è soltanto la parte cerimoniale e decorativa del culto cattolico. E questo va ripetuto alle generazioni cristiane che sotto l’influsso della riforma e - diciamolo pure - davanti agli abusi di un formalismo esagerato, sentono troppe attrattive per le religioni esoteriche. Ma l’azione liturgica si identifica con la vita stessa della Chiesa che è continuazione della persona del verbo e che come Lui e con Lui ha un unico scopo: offrire a dio il sacrificio grato che ristabilisce l’armonia tra creatura e Creatore, producendo nell’anima, mediante segni sacri e sensibili, l’effetto immediato della grazia che ci occorre per vivere”.
L’ipocrisia gesuitica ha lavorato invece ininterrottamente a minare queste affermazioni.
È partita dalla loro rivista Manresa (Disegno e struttura degli esercizi di s. Ignazio, genn. 1922) la critica contro il movimento liturgico saldamente sostenuto dai Papi.
Sono loro i fautori del dubbio circa la validità e l’importanza della celebrazione liturgica e del canto gregoriano là dove instillano l’ipotesi che altro non si voglia che si tratti di una ‘offensiva della spiritualità benedettina’ ai danni di altre ‘spiritualità’.
I gesuiti partendo dalla pregiudiziale indimostrata che il movimento liturgico metta la liturgia in opposizione alla meditazione, cerca di farne due ‘metodi’ ugualmente legittimi, ma profondamente diversi nell’esplicazione e nel valore di ‘considerazione ‘della vita di Cristo.
Essi rivelano un concetto della liturgia esclusivamente pedagogico-psicologico, nient’affatto teologico, affermando che: "La liturgia si rivolge alle facoltà sensibili, vista e udito, e il ‘popolo semplice’ ne riceve vantaggio. La meditazione - invece - si rivolge all’intelletto, quindi di maggior utilità ‘agli uomini colti’ ".
Senza parere, con questo tono pacato, si getta la liturgia tra quelle cose che già gli Illuministi avevano riservate come cose buone per il profanum vulgus, ma indegne delle persone illuminate.
Tutto ciò parrebbe minimo se non significasse semplicemente e tragicamente l’eliminazione del concetto di ‘presenza’ e ‘avvenimento’ quando si desidera annunciare al mondo la contemporaneità di Cristo.
Non pare, ma ritendo che esista una fede per persone colte ed un’altra da poveracci, si fa soltanto prova di non credere in null’altro che nella propria autosufficiente arrogante autonomia.
Dal ritenere la Madonna una sciocchezza per donnette, le processioni esempi di cattivo gusto, arrivare a ritenere il Santissimo davanti a cui inginocchiarsi per adorarlo, una superflua ingenuità o la messa una autocelebrazione della comunità, il passo è breve.
E che Presenza reale nell’oggi di nostro signore a cui rivolgersi con la credulità popolare che ci fa ancora pregare o cantare in chiesa con le vecchiette stonate, sia solo un archetipo arrugginito delle mitologie popolari, ce lo ha confermato non a caso un gesuita, Padre Arturo Sosa, preposito generale dei gesuiti, quando ci ha brillantemente ricordato che ai tempi di Cristo non esisteva il registratore.