"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Quando, a 11 anni, ha cominciato a fare domande, gli hanno messo in mano il questionario anonimo compilato dal padre biologico, identificato con un numero, che viene fornito ai clienti dalla California Cryobank, una delle banche del seme più grandi del mondo.
Eli portava sempre con sé quel foglio, nello zainetto. Ogni tanto lo tirava fuori per studiarne la calligrafia. Gli piaceva perché era una cosa concreta, che poteva toccare. Non è che volesse disperatamente conoscere suo “padre”, è più complicato. «Mi bastava sapere che era reale, che la sua esistenza era intrecciata alla mia, eppure, come dimostrava quel documento, totalmente separata».
Complicato è una parola che torna spesso quando parli con Eli, che oggi ha vent'anni e si sforza di definire con precisione i suoi sentimenti, tra lunghi silenzi, al telefono dalla California. Non usa le parole “padre”, “fratello” e “sorella” facilmente. «Non sono termini accurati, non riescono a descrivere quel che sono davvero questi rapporti, ed è un ostacolo ulteriore quando cerchi di elaborare quello che provi». Fino alla scorsa estate, pur sapendo di avere un padre biologico da qualche parte, stranamente Eli non aveva mai pensato ai suoi possibili fratellastri e sorellastre.
Ci ha riflettuto per la prima volta solo dopo aver saputo che due suoi amici avevano scoperto di avere lo stesso donatore grazie al Donor Sibling Registry, un sito creato 17 anni fa da Wendy Kramer e suo figlio Ryan, nella convinzione che l’anonimato faccia l’interesse delle banche del seme, ma non delle persone.
Basta inserire il numero del donatore: se combacia con uno di quelli digitati da altri utenti, ne ricevi notifica via e-mail. E anche se il “padre” non viene allo scoperto, è possibile contattare i propri fratellastri e sorellastre. Eli ha scoperto di averne 32. Un numero per lui scioccante – ma non insolito, visto che in America non ci sono limiti di legge sul numero di figli per donatore e decidono le banche del seme. Quando California Cryobank fu fondata, nel 1977, nessuno immaginava un mondo in cui la diffusione dei test del Dna e di siti come ancestry.com rendessero impossibile l’anonimato.
Così negli ultimi anni è emerso che centinaia di donatori in America hanno contribuito al concepimento di decine e decine di figli, non pochi più di cento. Per Eli è stato come ritrovarsi in un perverso esperimento sociale, si è sentito come un prodotto industriale. La sua prima sorpresa è stata che un ex compagno di scuola, Gus Lamb di Boston, in realtà è suo fratello. Ha provato un moto di gioia e insieme d’orrore. Impossibile non vedere un’altra versione di sé in quel ragazzo, anche lui ventenne (molti dei 32 sono suoi coetanei).
Quando ha cominciato a incontrarli, un brivido gli è corso giù per la schiena: totali sconosciuti, che arrossivano o si mordevano le labbra proprio come lui spingendolo a riesaminare la sua identità. Chissà quanti altri ce ne sono là fuori. Al terzo incontro, Eli tremava.
Un’ansia condivisa da almeno una delle madri dei suoi fratellastri, che ha spiegato al figlio sin dall'età di sette anni che un giorno dovrà fare il test del Dna prima di andare a letto con qualcuno. C’è una punta di masochismo, per sua stessa ammissione, nella decisione di Eli di andare a trovarli a casa tutti e 32, uno per uno, e di portarsi dietro una macchina fotografica. «Non l’ho fatto perché volevo conoscerli, non sono il tipo che va in cerca di nuovi amici.
È che avevo paura di quello che rappresentano. È stata la paura a motivarmi, ero destabilizzato dal fatto di poterli vedere online e ho pensato che il mio interesse per la fotografia potesse aiutarmi a recuperare una qualche stabilità. Volevo cercare di capire il sistema che ci ha creati, ho pensato di farlo attraverso un altro processo creativo».
Eli ha proposto al New York Times Magazine di pubblicare tutti i ritratti, e così si è pagato il viaggio, durato 10 mesi, attraverso 16 Stati americani. Tutti abbiamo un album di famiglia, lo sfogliamo per ricordarci chi siamo, ritrovare lo sguardo che avevamo da bambini, le persone che amiamo. L’album di Eli, pubblicato per la prima volta dalla rivista americana a fine giugno, esiste grazie ad un’assenza, del padre biologico, che spinge i “figli” a cercarsi tra loro per capire qualcosa di nuovo su sé stessi.
Eli usa una versione moderna della vecchia macchina fotografica di legno che funziona con lastre di grande formato: ci vuole almeno un’ora per scattare ogni immagine, ottimo pretesto per fissare a lungo i suoi soggetti. La lentezza di questo processo di conoscenza è anche un tentativo di “curare” il malessere provocato dalla sensazione di essere il prodotto di una rapida transazione finanziaria. Con alcuni dei suoi “soggetti” passa un pomeriggio, con altri qualche giorno.
Si finisce sempre col parlare di lui, il donatore, cercando di indovinarne l’aspetto o il carattere, mettendo insieme le somiglianze tra i figli: labbra piene, capelli corvini, molti sono artisti. Le immagini, volutamente drammatiche, sono la sua risposta alla «pubblicità facile che presenta i donatori come supereroi». C’è una critica innegabile del sistema, ma non una condanna: «È complicato, perché madri single e genitori dello stesso sesso dipendono da esso».
In Italia l’uso di ovuli o sperma estranei ai genitori, la cosiddetta eterologa, resta vietata a madri single e coppie gay. In America invece queste costituiscono oggi il 70% dei clienti delle banche del seme che non si fanno problemi a rivelare la verità, un capovolgimento rispetto ai primi tempi, quando i genitori che ricorrevano a questo tipo di fecondazione assistita erano soprattutto coppie eterosessuali con problemi d’infertilità maschile. Veniva considerata una cosa da nascondere, molti preferivano un donatore anonimo.
Nel frattempo, i primi bambini nati con donazione di sperma hanno raggiunto la maggiore età. Tanti vogliono sapere chi è il padre biologico. «Non posso parlare per tutti – dice Eli -. Per alcuni è una specie di curiosità passiva, mentre altri non si fermano finché non lo trovano, e oggi è piuttosto facile con le risorse a disposizione e l’impronta digitale lasciata da ognuno di noi». Le banche del seme in America si sono dovute adeguare.
Da 2017 la California Cryobank esige che tutti i donatori accettino che la loro identità venga rivelata ai figli, se questi lo chiedono dopo i 18 anni. Non è così ovunque però: in Spagna domina ancora l’anonimato. Ma Eli si domanda soprattutto se verranno introdotte vere limitazioni sul numero di figli per donatore: da questo dipende se storie come la sua diventeranno normali o resteranno limitate a questa generazione. Storie come quella di Eli compaiono sempre di più sui giornali americani e nei film. Hollywood ha proposto un lieto fine un po’ semplicistico nella commedia romantica Delivery Man, assicurando che Vince Vaughn, i suoi 533 figli in provetta e la sua futura sposa (incinta) saranno una grande famiglia felice.
I ragazzi stanno bene (con Julianne Moore e Annette Bening nei panni di madri lesbiche) invece ha il merito di far riflettere sia sul fatto che ci sono donatori che vorrebbero costruire un rapporto con i bambini che hanno aiutato a nascere, sia sul potenziale destabilizzante per le famiglie. La ricerca del padre della diciottenne JoEllen Marsh (la mamma single si era fatta spedire lo sperma in un paesino sperduto della Pennsylvania) è diventata un documentario, Donatore 150: lui è un eccentrico hippie che vive in una roulotte a Venice Beach.
“Donando” il seme per 25 dollari, tre volte a settimana, si è pagato l’affitto per anni. Non potrà essere un vero padre, e la sua vista fa rabbrividire decine di madri che lo avevano idealizzato, ma JoEllen gli è grata per essere venuto allo scoperto. Alla fine, anche Eli ha contattato il suo donatore, che però non ha voluto partecipare a questo progetto fotografico. «Non è come strappare un velo. Anche quando conosci la sua identità, non conosci davvero il donatore, sono rapporti in divenire».
È complicato. Dopo 12 ore, passate insieme, una delle sue nuove “sorelle” ha detto a Eli: «Ti voglio bene». Ma lui ha già una sorella, con cui è cresciuto e anche se non hanno in comune lo stesso donatore «lei sarà sempre più importante». Grayson, 4 anni, il più piccolo dei 32, scoppia in lacrime quando per Eli arriva il momento di partire. Piange perché è quello che fa un bambino quando lo lasci, ma esprime anche la confusione che provano tutti. «Sono entrato nelle vite di tutte queste persone per un giorno o due, a volte meno, e ogni incontro è stato drammatico. Nel lasciarci ci siamo sentiti intorpiditi e incerti, ci siamo domandati se ci rivedremo. In molti casi non succederà più».