"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Anima ferita da la discorde vita

Tra le Cicale ci sta anche un racconto che ci veniva fatto a lezione e che, sui nostri quadernini di appunti di Teologia fondamentale suonava quasi come una possibilità di ‘fare la comunione’ recitando la disperazione.
Quella disperazione -che il maestro di chi parlava a noi negli anni ’80, in realtà non ha mai mascherato- , ma svolto con impareggiabile competenza e amore . Come faceva  cioè  Giovanni Colombo, nel 1937.

  “Anima ferita-da la discorde vita”
Il tempo passa sulla poesia di Leopardi, come pioggia lieve e purificatrice sopra un paesaggio, e vi fa intorno una trasparenza per cui risplende sempre più nitida e casta.
Essa ha tenuto e tiene rivolto a sé, senza intermissione, l’interesse dei dotti, provocando una messe imponentissima di studi.
Tra il popolo poi, nessuna voce di poeta recente o di antico di nostra stirpe, a prescindere da Dante e Manzoni, è nota e cara come quella del Leopardi: appena si potrebbe incontrare qualcuno che ignori il suo nome e il suo male, e che non porti nel tesoro della memoria un gruppetto di suoi versi per ripeterli al cuore, che li domanda in certe ore di oscuro abbandono o davanti a certi spettacoli di bellezza suggestiva e malinconica.
Segno che i Canti non si possono ridurre allo sfogo compassionevole di un uomo  “malventuroso, e di piaceri o incapace o inesperto”, che dalla sua particolare miseria ed infermità fu indotto a costruire un sistema filosofico di universale infelicità e disperazione.
Quest’accusa , mossa con animo positivista da antropologo e da studioso d’anomalie psichiche, ferì la coscienza del Leopardi ancor vivente, che si difese con amarezza ironica nella Palinodia, con sarcasmo nel Dialogo di tristano e di un amico, e fieramente protestando in una lettera al De Sinner.
A noi pare che dalla sua prosa scarna, esatta, energica, che impone un volto pacato anche al più cupo tormento, da quel piccolo grande libro dei Canti si elevi un anelito, che è l’anelito profondo dell’umanità pellegrina e affannata per l’aspro ed oscuro cammino della vita.
Ora ci domandiamo: che anelito è questo che diventa poesia?
In che consiste la peculiare ed immortale grandezza di Giacomo Leopardi?
Non certo nelle sconsolate conclusioni filosofiche, in versi o in prosa, sulla miseria degli uomini, sulla loro immedicabile infeicità:” Arcano è tutto fuor che il nostro dolor”: “ Presso la cullaimmoto siede, e sulla tomba il Nulla”; “Non ha la vita un frutto, inutile miseria”;”Amaro e noia è la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo”; “ due veirtà che gli uomini generalmente non crederanno ami:l’una di non spaer nulla, l’altra di non essere nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”.
Queste negazioni estreme, che il poeta stesso non riusciva a giustificare pienamente sul piano teorico ed ancor meno su quello pratico, se fossero coerentemente prese a norma di vita, sospingerebbero all’ignavia, alla disperazione, alla morte.
Pertanto alcuni, volendo sfuggire alla sterile scogliera del pessimismo storico e cosmico a cui trascina il pensiero leopardiano, interpretarono ed esaltarono la sua poesia da un punto di vista puramente formale.
Preziosa fatica è pur questa, ma tutto ciò non spiega che un elemento della grandezza del poeta.
Se nell’arte secondo la definizione del De Sanctis, la forma è tutto, si deve però tener fermo alla inseparabilità del contenuto dalla forma, poiché la forma non è se non  il contenuto nella sua attuazione artistica.
Chi può riconoscere la ginestra del poeta, se non vede alcuni rametti fioriti in un bel vaso cinese sopra i lucidi tavolini di un salotto?
Non è più quella se non sparge i suoi cespi ad abbellir “l’erme contrade” della campagna romana, se non s’abbarbica in quei

…campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sola
La  serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio.

Così la poesia di leopardi non è più quella , se si prescinde dal vulcano che vi soggiace; non c’è più Leopardi senza il suo dramma interiore, non essendo egli di quei poeti in cui i modi espressivi e le ricerche stilistiche diventano l’interesse precipuo della vita e quindi il contenuto della loro arte.
Non già che quest’affetto e gusto d’artefice fosse in lui poco forte, ma ben altra profondità è quella del suo cuore d’uomo e del suo verso di profeta.
Leopardi come tutti gli spiriti grandi fu di quelli a cui il poco o la metà non contano: o tutto o nulla: o la pienezza di felicità o nessuna felicità è possibile ancora.
“Il cuore che egli ebbe” ci è manifestato dai suoi scritti specialmente dall’Epistolario e dallo Zibaldone, con un’apertura di confidenze e con una dovizia di particolari che non potremmo quasi desiderare maggiore.
Possiamo così dire di conoscere con profondità i sentimenti che hanno intessuto la sua vita intima: gli ardori di gloria, le accensioni violente d’amore, la disistima del “natìo borgo selvaggio”, l’insofferenza della clausura domestica, la contemplazione idilliaca della natura, il rimpianto delle speranze nutrite negli anni teneri e poi cadute sotto i colpi del vero (e il vero , per lui, era la filosofia del ‘secolo illuminato’), il fastidio ed il disdegno della vita, l’atroce disperazione, il riso di sfida e di scherno all’acerbo destino, la rassegnazione stagnante e disamorata.
Ma un altro sentimento v’era in lui che sorpassava tutti questi, e li unificava, innamorandoli di sé, assorbendoli in sé.
Il poeta gli dava di volta in volta nomi diversi: lo chiamava “cuore profondo”, “ingenua virtù”, “mia donna”, “pensiero dominante”, “Amore figlio di Venere Celeste”, “senso dell’animo”: nessuna di queste formule però lo contentava.
Questa realtà era un ‘ansia ed un ‘esigenza , ahimè, sempre delusa, d’amare e di essere riamato pienamente, cioè infinitamente: era un anelito smisurato e contrastato verso una “pienezza  di non intelligibile  felicità”: era un “amaro desiderio di felicità ignota e aliena alla natura dell’Universo” (Operette morali e storia del genere umano).
Si è scritto parecchio per dare dei responsabili alla sventura di Leopardi.
E’ vano accusare il padre che era un uomo ingenuo e tenerissimo, o la madre, donna religiosa e forte sebbene un po’ rigida e ristretta di mente, o il Giordani, o Recanati, o anche-più del vero- la complessione sgraziata del suo fisico, quando si pensa che in quel sentimento profondo l’uomo portava seco il suo destino di grandezza e di pena, e il poeta trovava il fascino doloroso che fa immortale la sinfonia dei Canti.

(…)
Chiamava Dio “gran Bello”, ma la sua vanità giovanile lo faceva fremere e sussultare, questa Bellezza suprema era sentita come evanescente in una fredda lontananza e non gli toccava il cuore.
Più che la morte fu proprio questo avido suo cuore ad avvertirlo con misteriose inquietudini che nella gloria non trovava la sospirata pienezza di felicità: si risvegliavano in lui desideri d’ignoto bene, ardori non mai provati, insoddisfazioni senza motivo, malinconie vaghe.
Era la poesia o l’amore?
Anche la poesia, ma specialmente era l’amore.
E scriveva: “Cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più di un anno desidero di parlare e di conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo, per rarissimo caso gettato sopra di me, mi pare cosa stranissima e meravigliosamente dolce e lusinghiera”.
Trovandosi così col cuore gonfio e lievitato da fermenti ancora indistinti, bastò una “cotal vicenda d’animo” perché il limite della gloria gli apparisse nettamente all’orizzonte, e i suoi occhi smagati vedessero balenare un bene più grande di là da quello, e tutte le potenze del suo essere venissero prese in una nuova esaltazione.
Ora il cuore, costretto per lunghi anni a palpitare tra polverosa erudizione e arida filologia, subito si volse colà dove s’accendeva la promessa di una felicità più intima e piena.

Amore, amore…
…mi sovvien del tempo
che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s’apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desìo
Balza nel petto….
Oh come soavissimi diffusi
Moti per l’ossa mi serpeano, oh come
Mille nell’anima instabili, confusi
Pensieri si volgean! Qual tra le  chiome
D’antica selva zefiro scorrendo,
Un lungo, incerto mormorar me prome.

Gli pareva di risvegliarsi da un lungo sogno, d’uscire finalmente da un luogo angusto e soffocato. Sperimentava per la prima volta ciò che dirà poi dell’amore di Aspasia: gli pareva di essere un pellegrino che per giorni abbia dovuto carpare in sentieri incassati, e che finalmente

da nudi sassi
Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorride
Volge bramoso gli occhi…

Gli discendeva nell’anima un silenzio improvviso, un vuoto sempre più vasto, dileguandosi ogni altro pensiero di superbia, di odio, di disprezzo, di sdegno.
In mezzo ai giri incantati di quella solitudine si ergeva il nuovo affetto, gigantesco e dominatore “siccome torre in solitario campo”.
Quel “cotal vicenda d’animo” era dunque l’amore che per la prima volta  gli passava vicino e concreto nella persona d’una signora pesarese, cugina di suo padre, ospite per pochi giorni a Recanati, sul finire del 1817.
Quand’ella ripartì, ignara di ciò che aveva provocato, il poeta sentì che un grave avvenimento era accaduto in lui, tato che non si riconosceva più  in quello di prima.
Gli studi per cui aveva sacrificato tutto gli parevano scoloriti e freddi; incominciava già a sentire quello che metterà in bocca al Parini, non essere la gloria alla quale si viene “colla sapienza e cogli studi delle buone dottrine e delle buone lettere” se non  l’ultima che l’uomo  dovrebbe desiderare.
Assisteva impotente alla propria metamorfosi interiore ed osservava con volto stupito come il primo amore per la gloria era impallidito  al sorgere del nuovo amore.
Deh quanto, in verità, vani siam nui!
Vani perché non capiamo noi stessi e non sappiamo ciò che vogliamo, ed intanto ci allontaniamo, trasportati dalla nostra stessa volontà e da ciò che realmente desideriamo.
Qui avvenne una cosa che egli chiamò “la più fiera di tutte”.
L’amore nel medesimo tempo che gli spalancava un nuovo mondo, gli dava a percezione lucida ed acerba che da quel mondo era escluso per sempre; mentre gli dissipava il sogno egoistico della gloria, lo metteva di fronte ad una realtà che non avrebbe mai potuto afferrare perché gli mancava salute e bellezza.
Non gli bastava più studiare e scrivere, voleva agire: ma senza la salute  gli era interdetta l’azione; la vita gli pareva avesse valore e ragione solo per l’amore, ma senza la bellezza, nessun amore per lui.
Non vedeva  modo di poter placare o soddisfare il furore amoroso del suo spirito (“chicchessia quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima”; Epistole, I, 162)

(…)
Soffriva così una specie di dannazione, trovandosi in mezzo agli uomini ed esiliato dal loro amore, in mezzo alla natura ed escluso dalla sua bellezza.
Ed è a questo punto che occorre vigilare per non cadere verso interpretazioni troppo materialistiche e false.
Se da una parte è certo che l’amore fu stimato da lui come il dono più grande sulla terra, il più vicino alla gioia degli immortali, quello per cui non avrebbe esitato a sopportare da capo tutti i mali della sua travagliata vita, dall’altra parte è pur certo che anche nei momenti di maggior esaltazione era sempre vigile in lui la coscienza del limite della creatura, della sua incapacità a contentare il bisogno d’amore infinito che aveva.
In ogni sua esperienza amorosa c’è un fatto documentabile facilmente con versi e prose del poeta stesso, ed è che la meta ultima verso cui si trasportava il suo cuore non era la donna: riluceva tanto in essa che vi pareva presente, ma era al di là di essa.
Onde avvicinandosi alla realtà, l’anelito all’amore intero restava deluso, ed il cuore ferito s’accorgeva d’esser caduto in un inganno di prospettiva: inganno che ad Aspasia, riconosciuto “alfin l’errore e gli scambiati oggetti”, griderà in faccia, con voce d’angoscia ed ira, di dispetto e di rivalsa:” Io te non amai, ma quella…”(Aspasia, v.78)
Altrettanto si deve dire del trasporto con cui moveva verso la natura e l’arte.
Anche nell’aspetto della natura, lo contemplasse nell’armonia del girono o in quella della notte più cara a’ suoi occhi malati e fissi nel mistero, anche nell’udire “dotto concento” e “musicali accordi”, i suoi sentimenti si esaltavano, ingigantivano a dismisura, toccavano quel rapimento estatico dove lo spirito vinto dalla dolcezza ineffabile, s’abbandona e naufraga:

…per mar delizioso, arcano
Erra lo spirto umano,
Quasi come a diporto
Ardito notator per l’Oceano…(Sopra il ritratto di una bella donna, vv44-47)

E il naufragar m’è dolce in questo mare (L’infinito,v.15)

Dove l’estasi è provocata dalla natura.
Vicino a questi versi possiamo richiamare alcune righe famose d’una lettera al Giordani: ”Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperto la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro ed un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tiepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto del cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura”( Epistole, II,18)
L’oggetto che gli moveva il cuore, che lo faceva gridare come un forsennato, non era la natura materiale; non erano certo i suoni nel loro rumore e nella loro tecnica che lo rapivano; bensì qualche cosa che, rivelandosi in essi, era al di là di essi,

Quale splendor vibrato
Da natura immortal su queste arene (Sopra il ritratto di una bella donna, vv. 26-27)
Questo splendore sovrumano a volte era sentito così concretamente che il suo spirito credeva di gustare una primizia che fosse vera promessa e certa speranza “di fortunati regni e d’aurei mondi”, di là da questo che i sensi toccano e dove il cuore non trova in nessun modo la sua pace.
Erano momenti in cui la parte più viva e remota della sua personalità si sollevava con impeto fidente e sbocciava in “eccelsi, immensi pensieri e sensi inenarrabili”, in “desideri infiniti e visioni altere”.
Altre volte però non gli riusciva di sorpassare l’elemento fisico nelle sensazioni destate in lui dalla vista della campagna o d’altri spettacoli naturali, e allora provava una scontentezza “come per non poter andar più addentro e gustare più, non parendogli mai quello il fondo” (Scritti vari).
Il fondo ultimo della bellezza, dovunque gli apparisse o nella donna o nella natura o nell’arte, intendeva che fosse una Realtà infinita e viva, cioè intelligente e libera.
E l’invocava con ansia, implorando una risposta contro le negazioni sempre più pretenziose dei sensi:

Vivi tu, vivi,  o santa
Natura? E il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie? (Alla Primavera, vv.20-22)

Che fai tu , luna , in ciel? Dimmi , che fai,
Silenziosa luna?
……………………
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono? (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv.1-2;88-89)

Invece d’una risposta confortatrice, udiva dentro di sé la ragione, vincolata dal senso, affermare che non esisteva quella spirituale bellezza a cui l’animo profondo aspirava oltre le forme sensibili; e gli metteva davanti la prova nella morte, quando , dissolvendosi il bel corpo della donna, si spegneva lo splendore che sembrava vibrato da natura immortale ed insieme si dileguava dalla mente degli uomini quella speranza d’una eterna felicità che la femminile bellezza aveva dapprima fatto concepire.
L’animo spaurito e tremebondo sotto le imperiose negazioni della ragione, diceva  di sì, di sì, concedeva che ogni nostro eccelso pensiero è un ‘illusione che s’accende e spegne nella materia; ma poi, di soppiatto, riprendeva da capo a domandare:

Natura umana, or come
Se frale in tutto e vile,
Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?
Se in parte anco gentile,
Come i più degni tuoi moti e pensieri
Son così leggeri
Da sì basse cagioni e desti e spenti? (Sopra il ritratto di una bella donna, vv.50-56)

Siamo così pervenuti alla radice più profonda dell’esigenza spirituale di Giacomo Leopardi.
A lumeggiarla mi soccorre una pagina stupenda di sant’Agostino, nelle sue Confessioni, anche se all’esperienza del poeta nulla di più simile ed insieme più divergente dell’esperienza del santo.
Nulla di più simile perché tanto il poeta quanto il santo vedevano nelle creature brillare un vestigio di felicità immensa, un riso di bellezza eterna, e le loro anime bramose d’infinito si slanciavano all’amplesso; ma i sensi non stringevano mai se non cose periture e finite.
Delusi entrambi dicevano: “Non coteste cose io amo; eppure l’oggetto del mio amore in queste cose è balenato”.
Da qui poi cominciava la loro opposizione: ché il santo, allora , trascendeva il senso e la molteplicità delle forme passeggere, le quali , essendo fatte per essere sorpassate, sempre straziano e deludono chi in loro si ferma, e raggiungeva dentro di sé, nell’uomo interiore, l’oggetto del suo desiderio ed in esso possedeva in unità e pienezza quanto sparsamente ed incompiutamente brillando nelle creature, l’aveva lusingato; il poeta invece restava prigioniero del fenomeno, e non sapendo districarsi dalle esperienze sensibili, e non potendo placare in quelle soddisfazioni fuggitive la sua anima nobile e grandemente assetata d’infinito, concludeva che la felicità è una chimera poiché nessuna realtà esiste capace di rispondere alla più profonda aspirazione dell’uomo.
La vita, da lui scrutata con mentalità sensista, gli risultava una misera cosa, ben difforme da come la esigeva irriducibilmente il cuore; perciò l’anima spasimava scissa tra un’esigenza agostiniana ed una negazione sensista.
Per tale scissura, l’uomo individuo gli parve come un desiderio senza speranza, uno slancio nell’impossibile, una sovrabbondanza di vita interiore che volendo tutto abbracciare ed essere sempre colma, è delusa ineluttabilmente da tutte le cose, perché tutte le cose ‘reali’ (e per Leopardi erano reali solo quelle che cadono sotto i nostri sensi) sono più piccole della sua capacità.
Anche la gloria, anche l’amore, anche la bellezza, che pur sono i beni maggiori che siano concessi ai mortali, sono più piccoli della sua capacità.
Per tale scissura, l’intera storia del ‘genere umano ’ gli parve distesa e straziata tra due poli: “cupidità ed incapacità d’infinito” (Operette, ed. Gentile, pag.17).
Immaginò che i popoli, appena usciti dall’infanzia favolosa, accortisi che le cose del mondo presente non erano “immense di grandezza né infinite di beltà, di perfezione, di varietà” come avevano dapprima giudicato, fossero stati presi da un disgusto e un fastidio intollerabile che aveva spinto parecchi a privarsi della vita.
Giove s’adoperò con ogni mezzo a moltiplicare le apparenze d’infinito e di mistero, ma “l’acume e la veemenza del desiderio” di una felicità reale e perfetta faceva scoprire l’insufficienza di quegli stessi espedienti, e tornare a galla il tedio mortale e la disistima della vita.
Anzi gli uomini, esasperati dalle delusioni, divennero malvagi, poiché-secondo il Leopardi- non fu la colpa a farci infelici, ma l’infelicità a renderci iniqui ed empi.
Giove ricorse ai castighi, alle malattie, al lavoro, alle occupazioni e preoccupazioni, mandò in giro alcuni fantasmi “di sembianze eccellentissime e sovrumane” come la Giustizia, la Gloria, l’Amore a fingere alla vita un senso ed uno scopo degno; ma “l’inquieta , insaziabile, immoderata natura umana  “tosto vi sentiva di nuovo il finito ed il vuoto.
Giove alla fine stanco di confortare il genere umano con illusioni d’infinito, lo abbandonò in preda alla Verità e allora tutti videro che l’infelicità è l’essenza della vita umana.
Il pastore dell’Asia, sempre errante col cuore, guardando con invidia la dolce sua greggia sostare in pace, nella notte sotto la luna, ed interrogandola:

Dimmi: perché giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale,
Me, s’io giaccio, il tedio assale?

ode  venirgli questa muta risposta: “Perché tu sei un uomo e porti congenito all’anima il desiderio folle di una felicità immensa ed irriducibile in atto.
Potessi sradicarlo da te, o almeno attutirne l’intensità, allora ti sarebbe concesso di sostare talvolta agli abbeveratoi della terra ed ivi obliare te e saziare la tua sete”.
Questo però importava la rinunzia ad essere uomo, o almeno, ad avere un cuore nobile e grande; né l’una né l’altra cosa era possibile a Giacomo, cui la natura aveva detto:” Vivi, e sii grande ed infelice”(Dialogo della Natura e di un’Anima,  in Operette).
Veramente ci sarebbe stata una via per non consegnare l’anima in preda all’infelicità: attaccarsi alla religione che l’assicurava che quel desiderio della sua natura non era folle, che quella felicità immensa era riducibile in atto.
Ai primi assalti della ragione, non libera ma aizzata dai sensi, Giacomo Leopardi vide in quella l’unico scampo e scrisse: ”La natura è grande, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira. Questa inimicizia di queste due gran madri delle cose non è stata  risolta se non dalla religione.
Tolta la speranza della vita futura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza delle virtù, della sapienza, della verità. della beltà personificata in Dio, la cura di questo essere intorno ai portamenti nostri ecc. , l’amore di lui ecc. , non ci sarà mai, si può dire, azione eroica e generosa e sublime e concetti e sentimenti alti, che non siano vere  e prette illusioni e che non debbano scadere di prezzo, quanto più cresce l’impero della ragione, come già vediamo che sono illusioni quelle grandezze anche presenti, nelle quali la religione non ha parte, e che con l’indebolirsi la forza della fede negli animi, scemano presentemente quelle azioni sublimi, delle quali erano molto più fecondi i secoli passati ignoranti, che il nostro illuminato”.(Zibaldone, I, 133)
E’ una pagina molto significativa dove alle prime avvisaglie del pericolo, le aspirazioni immortali del cuore, gettando un trepido allarme , chiamano in soccorso la religione perché difenda a loro un posto al sole della realtà, di fronte alle pretese sempre più grosse di una ragione materialista che mirava a confinarle nel regno delle ombre, delle larve, delle illusioni, dei sogni.
Ma lo spirito di Leopardi ventenne di quali forze reagenti poteva disporre?
Quando, con la mente rivolta a questo problema, si ripensi la vita giovanile del poeta, si rileggano i suoi scritti, non si faticherà a riconoscere che la fede in lui era sincera, ma non era fermento di vita, non permeava la zona dei più cari interessi, non concresceva col suo spirito.
Il suo spirito straordinariamente ricco e precoce s’era fatto presto gigante in tutte le sue forze, tranne quella religiosa ch’era rimasta, relativamente alle altre, rachitica.
Leopardi, man mano che la sua cultura s’estendeva non aveva avuto tempo di fornire al suo sentimento religioso un ossequio razionale adeguato, che lo radicasse nell’intelligenza e nella volontà.
Se ben si osserva, anche la calda apostrofe alla “religione amabilissima” con la quale si chiude il Saggio sopra gli errori degli antichi , vibra di un entusiasmo fatto più di tradizionale sentimento che di personale convinzione.
Di modo che al cominciare della lotta, la religione perse subito terreno.
Nell’interessante pagina riferita poco sopra, essa è ancora colei che dà un valore reale alle più nobili aspirazioni, ai più alti sentimenti.
Però-si badi e si diffidi,- è un valore non convalidato dalla ragione.
Ed ecco che nel Discorso intorno agli inni ed alla poesia cristiana la religione è lodata per un merito pericolosissimo che d’un balzo la respinge alla porta della realtà; quasi la butta fuori: “Ha moltissimo di quello che , somigliando all’illusione, è ottimo alla poesia”.
Già fin dal 1820 se le speranze della fede erano per lui una realtà, non differivano negli effetti dalle illusioni.
“Quello che uccideva il mondo era la mancanza di illusioni; il cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti che produsse, entusiasmo, fanatismo, sacrifizi magnanimi, eroismo sono i soli effetti di una grande illusione” (Zibaldone, I,398).
Abbassato il cristianesimo sul piano delle illusioni, lo giudicò inferiore agli antichi miti della paganità,, perché più illuminato e meno  spontaneo.
Ci fu un momento in cui stava per ripetere quell’accusa di religione lugubre che fu già del Foscolo, e che poi sarà ripresa con voce sonora dal Carducci e dal D’Annunzio; scrisse infatti nel Novembre 1820 che la forza della religione cristiana è “tutta tetra, malinconica in paragone della freschezza, della bellezza, allegria, varietà della vita antica”(Zibaldone I, 399-400)
Poi si ritrasse; ad ogni modo l’anno 1820 non finì senza lasciare aperte parole che rilegano definitivamente la fede nel mondo dei fenomeni e delle illusioni.
“Non v’è quasi altra verità assoluta se non che tutto è relativo. Questa dev’essere la base di tutta la metafisica”
Comunque fosse accaduto, quando in lui fu spenta la fede, s’accorse d’aver persa la felicità.
“L’esperienza conferma che l’uomo qual è ridotto, non può essere felice sodamente e durevolmente se non in uno stato(ma veramente ) religioso, cioè che dia un corpo ed una verità alle illusioni, senza le quali non c’è felicità”
Che cosa ormai gli restava da fare?
O curvare quel suo immenso desiderio ad un pascolo di piaceri sensuali, o dimenticarlo.
Ma abbiamo già osservato che entrambi i rimedi erano vani.
Ritenne “che ogni concetto della mente umana nasca dalla sensazione e si contenga in essa” e siccome ogni esperienza sensibile è limitata, non trovò più modo di dare un oggetto reale alla sua esigenza di infinito.
Conchiuse  allora che il sommo bene, l’Infinito a cui l’uomo aspira, non esiste perché tutto ciò che esiste è limitato; soltanto il  nulla è senza limiti: l’Infinito dunque è il nulla.
E cominciò a vagheggiare l’Infinito nel nulla: l’indefinito.
Scriveva: ”Riconosciuta l’impossibilità tanto  dell’esser felice , quanto di lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi: riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro che da questa tendenza, e dal non poter essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto  in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore i ciascuna specie o individuo animale quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza” (Zibaldone,VII, 116)
Per questa via , ognun se ne avvede, Leopardi arrivò logicamente al nullacome alla stazione della felicità (ossia della non-infelicità): se la vita è un ‘aspirazione decapitata del suo termine, un anelito inestinguibile e perennemente strozzato, se vivere è dimorare in uno stato di privazione e di soffocazione, allora la vita è male, meglio non essere che essere.
Ma poi, per quanta logica v’impiegasse, gli restava sempre in fondo qualcosa di impersuaso: ed era quell’anelito acuto che sentiva affermarsi come volontà di vita e non d’annientamento.
Esso, spezzato nel suo impeto di trascendenza, ma non domato, ricadeva all’interno e, senza possibile sfogo, serpeggiava rinchiuso nel cuore del poeta divorandolo dal di dentro “sordamente come u fuoco elettrico che non si può sopire, né impiegare in bene, né impedire che non iscoppi in temporali e terremoti”(Zibaldone, I, 300)
Finì per chiudersi in una posizione tragica se altra mai, a cui ben s’addicono i primi due versi di una lirica che Alessandro Poerio rivolgeva al nostro Poeta:

O anima ferita
Da la discorde vita.

Le forze della sua persona s’erano scardinate e ciascuna-la natura che vive e la ragione che vede vivere- operava scissa e contrastante, secondo una direzione ed un ritmo proprio.
Il mistero della vita a cui si era affacciatosi rivelava a lui in una contraddizione pietrificante dove la morte volontaria appariva come la soluzione più logica , ma nel medesimo tempo come la più mostruosa, dove la vita pazientemente durata appariva come la soluzione più spontanea, ma al contempo la più illogica.
Posto a scegliere tra l’ essere un mostro –seguendo ragione- o l’ essere un uomo infelice o illogico seguendo natura, Leopardi effettivamente preferì il secondo partito e non volle mai decidersi al gesto feroce ed inumano che pure ammirava e  di cui talora aveva  subito il fascino pericoloso.
Ma proprio quando la speranza era più morta e la disperazione  si faceva atonìa stagnante , la coscienza ritrovava una “natural burella”, un “pertugio” per dove giungeva un misterioso presagio di stelle; presagio simile a quello che attirava ancora Colombo verso l’ignoto mondo, sebbene tutti i pronostici che gli erano sembrati certi già si fossero dimostrati erronei (Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Guitierrez, in Operette)
Ma perduta la fede, relegate le certezze e le speranze religiose nel paese delle chimere, anche quest’unico sbocco all’ardore di “felicità ignota ed aliena alla natura dell’Universo”, fu chiuso fatalmente.
Egli è solo sospeso tra due vuoti immensi.
Potesse credere, o almeno illudersi, che all’anelito del suo cuore risponda una meta reale!
Ma egli è certo che quella meta non c’è, che non ci fu mai, che mai ci sarà: e questo è orribile.
Eppure a quella felicità suprema(che non esiste, gli dice sempre la ragione; che potrebbe esistere, gli dice sempre il cuore impersuaso), da questo granello di sabbia sperduto nell’Universo lancia il suo inno grondante lacrime:

Di qua dove sono gli anni infausti e brevi
Questo d’ignoto amante inno ricevi

Sac. Giovanni Colombo, 1937

(Tratto dal volume commemorativo del I centenario della morte di Leopardi, a cura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore)