"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Le metto come incipit di un altro passo a seguire.
Un passo scritto da Inos Biffi, qualche anno fa, sempre a proposito della Liturgia.
(Neretti e corsivi qua e là sono miei)

“Non si tratta tanto di guardare il sacerdote o di osservare i suoi gesti, ma di guardare insieme il Signore e di andargli incontro. L’entrata in scena quasi teatrale di svariati attori, quale oggi si vede, specie nella preparazione delle offerte, s’allontana semplicemente dallo scopo essenziale. Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sarebbero molte, ma che vengono regolarmente artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della Liturgia, allora si perde il vero ‘teodramma’ ed esso viene addirittura trasformato in parodia.
Le azioni esteriori sono in realtà totalmente secondarie, l’agire dovrebbe del tutto cessare quando arriva la cosa essenziale: l’oratio, il Canone. È, infatti, l’oratio che conta veramente, poiché dà spazio all’actio di Dio”.
“Il primo principio che avrebbe dovuto assolutamente risaltare, dall’attuazione della Riforma postconciliare della Liturgia, era quello grazie al quale e sul quale essa si identifica come tale: il principio cristologico.
Da esso, e precisamente solo da esso, la Liturgia appare sacramento della storia della nostra salvezza, ‘ripresentazione’ efficace dell’evento pasquale, atto di Cristo nell’applicazione della salvezza operata nei suoi misteri.
È ciò che conferisce alla Liturgia la sua specificità cristiana di momento nel disegno salvifico, cioè momento di ‘grazia’.
Nella misura in cui venga ad offuscarsi l’identità di Cristo, la Sua singolarità, la dimensione misterica e soprannaturale della Sua opera e della Sua divinità, il realismo della Sua Resurrezione, il Suo essere eschaton, ecco che, conseguenzialmente, l’atto liturgico perde attrattiva e consistenza, si altera, diviene un’altra cosa, completamente differente.
In particolare, non può più essere azione della grazia e dello Spirito di Cristo, presenza del disegno sacramentale, che ha come suo imprescindibile e culminante avvenimento il sacrificio della Croce, e, perciò, gesto di salvezza e di misericordia che richiede la disponibilità della fede e dell’adesione.
Dall’affievolirsi di questa proprietà cristologica ASSOLUTAMENTE IRRIDUCIBILE, abbiamo ottenuto che l’atto liturgico non avvenga prima di tutto come atto della Chiesa, della Sua memoria, atto che accoglie la salvezza e che, dalla Parola di Dio, cioè da Cristo Gesù, riceve primariamente il criterio di giudizio, i contenuti e il significato di tutto.
Paradigmaticamente si potrebbe portare proprio il caso della Liturgia eucaristica: senza le premesse ricordate relative al disegno divino originario e determinante, la Liturgia celebrata nelle nostre chiese, non è cristiana.
Di fatto, alcune liturgie o aree di celebrazione, giustificano esattamente il nascere in chi vi assiste di perplessità circa la loro proprietà cristiana.
Strettamente connessa con l’affievolimento della coscienza cristologica di cui sopra, è l’insinuarsi e l’esprimersi di una concezione secolarizzata della Liturgia, la sua ‘desacralizzazione’ o, per essere precisi, di una interpretazione antropologicizzata.
In gradi, e con segni diversi, sul piano della prassi e su quello della concezione, la Liturgia non manca di essere intesa e sostenuta come celebrazione primariamente antropologica: sia per l’attenuazione del riferimento discriminante a Cristo Gesù - specialmente al Suo sacrificio - sia per l’esaltazione della liturgicità di ogni e qualunque espressione umana, in quanto tale.
Se - come sembra - raramente queste concezioni si sono presentate allo ‘stato puro’, le stesse liturgie, in senso nominalistico rinnovate, hanno ammesso, di fatto, infiltrazioni o addirittura preminenze in senso puramente secolarizzato, dove la realizzazione e la derivazione da Cristo non costituisce l’elemento definente, ma quasi aggiuntivo.
Occorre dire chiaramente che la secolarizzazione insinuatasi come contestazione della soprannaturalità e della dimensione misterica della storia ‘soggettivata’ da Gesù Cristo, ma, anche più radicalmente, della morte di Dio, come misconoscimento della teologicità della realtà, specialmente dell’uomo stesso, mortificano la Liturgia, la rendono assolutamente VUOTA.
Questi fenomeni culturali attivi nel postconcilio sono stati molto influenti in qualche modo, sia nell’idea che nella pratica della Liturgia.
Si comprende allora in questo clima l’efflorescenza di una significatività liturgica sbrigliata, attinta alla matrice naturale o sociologica magari con l’intenzione e la ragione di una sua maggiore ‘concretezza’, espressibilità od attualità, e, in contemporanea, ‘facile’ e sbrigativa nel giudizio, a proposito dell’arcaicità del linguaggio liturgico tradizionale o anche biblico.
Seguendo questa linea, non sorprende il richiamo all’autonomia creativa, che inventa, introduce, muta i segni determinati autorevolmente a favore di una novità ritenuta più aderente e ‘costruttiva’.
In questa atmosfera ideologica e pratica non può che sfaldarsi il concetto di sacro e l’affermazione conciliare della Liturgia come eminentemente sacra.
Tale concetto di sacro entra nella precarietà anziché nella sua indiscutibile validità di azione come segno di grazia che l’uomo NON PRODUCE, ma ACCOGLIE da Gesù Cristo, e come tale, nella forma dell’azione sacramentale posta con fede.
Dopo che il Concilio aveva voluto superare una concezione semplicisticamente sociologica di Chiesa, paradossalmente, proprio l’incertezza sui tratti caratterizzanti la figura e l’opera di Cristo si è riflettuta obbligatoriamente sull’immagine stessa della Chiesa, per di più, dopo che la Chiesa stessa, è stata l’oggetto forse più studiato e insegnato.
Negli anni seguenti, si venne diffondendo una figura di Chiesa dove la dimensione cristologica è totalmente incrinata e il carattere di mistero di salvezza, cui accedere nella fede, si è attenuato, fruttando un ‘ecclesiologia ‘orizzontale’, insufficientemente legata al disegno divino ed alla presenza del Signore.
In questo contesto non può che diffondersi lo spontaneismo che è via per un nuovo frazionamento a dispetto del carattere ecclesiale e quindi unitariamente comunitario, posto come principio della riforma e tipico della liturgia cristiana.
Si è eliminato - forse inconsapevolmente - quel carattere di giudizio discriminante che la Sacrosantum Concilium richiedeva per l’assunzione degli elementi ‘culturali’ circostanti, ponendo, indifferentemente adattamenti spontanei, improvvisati e tutt’altro che formativi.
Se, immediatamente, la linea negativa rivela un’infedeltà ai principi della teologia del puro rito cristiano, più a fondo, invece, vengono disastrosamente implicati i fondamenti dogmatici cristiani, la dottrina teologica, cristologica ed ecclesiologica.
Se di crisi oggi si deve parlare, questa non è principalmente disciplinare, ma di fede.
E questo a causa dell’abbassamento sistematico e metodologico del cristianesimo come mistero.
È un neo illuminismo che riduce la fede a ragione, l’economia salvifica ad avventura umana e che misconosce l’originalità inedita ed incomprensibile del mistero di Dio in Cristo Gesù e, pertanto, dell’antropologia nuova che ne deriva.
Se questi elementi vengono ritrovati e professati, la Liturgia non può che ritrovare il suo statuto e apparire come la espressiva esperienza della comunione dell’umanità credente con l’evento di Gesù Cristo
Il quale - risorto da morte e glorioso - le affida sé stesso, il Suo Corpo ed il Suo sangue, la Sua forza, la Sua lode, il Suo Spirito, donec veniat.