"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Sono le domande che ogni domenica, in modo progressivamente più urgente, sono costretta a pormi uscendo dalla Messa appena celebrata.
Questa tematica così poco politicamente corretta, in un mondo come il nostro di oggi, è tuttavia il cuore della domanda di un senso per la propria esistenza.
Come per tutte le cose che scegliamo di fare fuori di casa, si può benissimo andare a Messa per ‘socializzare’, ovvero per passare un po’ di tempo in compagnia, forse (ma solo forse) per ricrearsi lo spirito ascoltando qualche canto piacevole, taluni magari ancora ci vanno pensando di salvarsi dall’inferno, ma nessuno di questi, che sono i motivi per lo più correnti, può e deve essere il motivo principale.
Il motivo principale i è, e resterà sempre, quello di uscire dal gorgo del nulla e dell’anonimato.
Per uscire dal nulla e dall’anonimato, io, come so che non posso non andare a Messa, so che non posso evitare di pormi le domande di cui sopra.
Mi fa, quindi, piacere condividere le verità riguardo la Liturgia che ho trovato e che salvano dalla pura perdita di tempo le mie Domeniche, le mie Messe.
La prima notizia che ho trovato - e amato - proviene dal vol. XI dell’Opera Omnia di Ratzinger e dice così:
“La Liturgia è una forma strutturata della speranza, che già ora permette di vivere - in anticipo - la vita futura, la vita vera.
Vivendo in modo consapevole la Liturgia, siamo addestrati alla vita autentica: quella della libertà, dell’immediatezza con Dio e della schietta apertura reciproca.
Essa imprime anche nella vita, che appare a noi la sola reale, cioè quella della quotidianità, i segni anticipatori della libertà capaci di rompere le costrizioni e di portare il riverbero del cielo sulla terra.
Oggi però l’idea della vita futura appare solo come un vago postulato e il ‘guardare Dio’, senza il quale parlare di vita futura equivale a parlare del deserto, è sempre molto indeterminato”.
Proprio così…
E il problema parte da molto lontano, da almeno cinquecento anni addietro.
Proseguo ora rifacendomi ad uno studio di Francesco Agnoli, il quale ci porta, senza indugi, dritti dritti al monaco agostiniano che agli albori del ‘500 procurò la devastante rottura in seno alla Chiesa.
“La nuova concezione di sacerdozio propugnata da Lutero, unita alla dottrina della sola fides, porta con sé la riduzione e lo svuotamento di ciò che è compito precipuo del sacerdote: l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione della Messa.
Lutero così dichiara nella sua omelia della I settimana d’Avvento: ‘Tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassinii e gli adulteri del mondo sono meno malvagi di quell’abominio che è la messa papista’.
Era questo, non in quanto persona, ma in quanto istituzione, l’obiettivo dell’odio fondamentale di Lutero: il Papa, il segno visibile dell’unità della Chiesa.
E nel Contra Hereticum prosegue: “Quando la Messa sarà distrutta, penso che avremo distrutto anche il papato. Infatti, il papato poggia sulla Messa come su una roccia. Tutto questo crollerà quando crollerà la loro abominevole e sacrilega messa”.
I tre fili conduttori presenti nel riformatore i quali costituiscono il nucleo, lo spirito stesso della sua riforma, non legata certamente a dei dettagli, sono principalmente tre:
- La condanna della nozione di sacrificio
- L’altare versus populum
- L’abolizione della lingua latina nelle celebrazioni per sostituirla con l’uso del volgare
Per quanto riguarda il primo punto, il monaco riformatore attacca la nozione cattolica tradizionale e fondante di Messa, sì memoriale e banchetto, ma prima ancora rinnovazione incruenta del sacrificio della Croce.
Lutero nega che la Messa sia una riattualizzazione del sacrificio della Croce, un’azione compiuta dal sacrificatore.
Per Lutero qualunque altro attributo può andar bene -benedizione, eucarestia, mensa del Signore o memoriale del Signore - ma “non la si macchi col nome di sacrificio”.
Secondo la sua visione distorta, infatti, il sacrificio quotidiano, rinnovato più volte al giorno nella Messa, toglierebbe valore all’unico sacrifico di Cristo, avvenuto in un preciso momento storico, sufficiente esso solo a cancellare i peccati del mondo, definitivamente una volta sola per tutte.
Questa concezione porta nel suo “L’abominio della messa silenziosa. Il cosiddetto canone” del 1525 lo porterà a voler modificare la parte essenziale del rito, eliminando i vari accenni al sacrificio presenti: soprattutto il ‘Te igitur’, nel quale viene detto dal celebrante: “haec dona, haec munera, haec sancta sacrificia illibata”, con relativo riferimento ad Abele.
Lutero dichiara che “va rimosso lo scandalo, che è la convinzione che la Messa sia un sacrificio offerto a Dio. Il canone è orientato in questo senso quando dice: “questi doni, queste offerte, questi santi sacrifici” e poi “questa offerta” chiedendo in modo chiarissimo che il sacrificio sia gradito come quello di Abele, eccetera. Qui Cristo viene esplicitamente chiamato ‘vittima dell’altare’”.
Lutero sa che nell’insegnamento cattolico, il sacrifico dell’agnello fatto da Abele, e la morte sulla Croce di Cristo come vittima, hostia, nella Messa sono collegati in quanto il primo non è che la prefigurazione veterotestamentaria del secondo.
Il canone, quindi, con la sua ‘parte silenziosa’ (oggi è proclamato ad alta voce, come tutto quanto è pertinenza del sacerdote) va abolito tout court.
Lutero mette alla berlina l’idea di Messa come ‘azione del sacrificatore’, oltre a contestare quella che la recita silenziosa per lui equivale ad un ‘esclusione deliberata dei fedeli.
Questo momento della celebrazione infatti - quando il sacerdote separa nettamente col cambiamento del tono di voce e di atteggiamento la parte della narrazione (“Il quale nella vigilia della sua passione, prese nelle sue mani…”) da quella della consacrazione (“Questo, infatti, È IL MIO CORPO…”) è il momento della riattuazione mistica del sacrificio di Cristo.
La perdita penalizzazione del Canone, voluta da Lutero, muta tutta la cerimonia: la rende esclusivamente un banchetto e un memoriale. Adesso, come tale, ciò che conta è il suo essere ‘atto comunitario’, legato all’ascolto e alla rievocazione di un avvenimento storicamente accaduto e concluso.
Il sacrificio di Cristo non più evento attuale, non è più un sacrificio cui assistere, ancora oggi come gli spettatori ai piedi del Golgota, silenziosi e adoranti.
L’evento finalmente liberato dal suo essere ‘privato’, diventa comunitario, nel significato protestantico per cui Dio si manifesta nella ‘comunità’, in ciascuno dei suoi membri, ‘convocati attorno alla Mensa per celebrare la Cena ed ascoltar la Parola…’
In realtà il rito cattolico come ci è stato tramandato fin dai tempi apostolici, è primariamente un evento sacrificale, poi, in secondo luogo, conviviale.
Per quanto apparentemente ‘privato’, infatti, il rito cattolico comporta sempre la certezza della comunione.
Comunione fra Chiesa militante, quella riunita in preghiera, quella purgante (negata dai protestanti) e quella trionfante. Comunione che si realizza anche in assenza di popolo, solo ed esclusivamente per i meriti di Colui che è il capo del Corpo che è la Chiesa”.
Sulla falsariga delle istanze protestantiche il concetto di ‘comunione’ - fatto oggettivo e sacramentale - scivola surrettiziamente in quello di ‘comunità’, fatto bello quanto si vuole, ma contingente e sociologico.


Fine della prima puntata.
Altre due puntate (a dio piacendo) per gli altri due punti.
Buona settimana.

(immagine: "Uscita dalla messa domenicale" - Gianfranco Giliberto)