"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Su di un montante più o meno largo ogni croce appare regolarmente sormontata da un cerchio traforato o un disco massiccio.
Dalle Isole Aran a tutta la terra dell’Isola di Smeraldo, è un susseguirsi di croci piantate vicino a monasteri o in mezzo a luoghi di passaggio più o meno significativi.
Queste croci en plein air, mi sono sfilate sotto gli occhi recentemente, per giorni e giorni, intanto che cercavo di ingannare la malattia che non se ne voleva andare.
Era l’unica cosa che riuscivo a fare: contemplare libri sul Romanico in Europa, da me conservati gelosamente e quasi mai aperti.
Tra una fotografia del Romanico in Irlanda, e l’altra, cioè tra una croce irlandese - sommariamente detta ‘celtica’ secondo approssimazioni più o meno ideologiche - e l’altra e uno sguardo fuori dalla finestra da dove - in sequenza progressiva - si vedeva l’accendersi di luci e lucine natalizie su balconi strade e vetrine, mi sono sentita spinta fare alcune riflessioni.
Riguardano il Natale.
Ma su un Natale senza Babbi Natali o slitte o montagne di regali consumistici e presto consumati.
Il Natale che, proprio con la sua tradizione di illuminare le giornate fatte sempre più corte sino al solstizio d’inverno, mi è apparso quest’anno strettamente connesso al disco delle croci irlandesi.
Che fosse, questo disco, per gli antichi irlandesi, frutto di antiche religiosità legate al culto del Sole, questo poco importa. Anzi: è ancora più significativo ritrovare questo simbolo di luce attaccato alla Croce di Cristo.
In questo periodo, solitamente, se non si è a casa ammalati, si cammina per lo shopping natalizio accompagnati, nonché frastornati, da mille accattivanti esempi di illuminazione.
Bisogna ammettere che molto difficilmente si potrebbe collegare il piacere e la leziosità di tante luci e giochi sempre più sofisticati di luce con il fatto della morte.
E, su tutte, di una Morte: quella di Cristo in croce.
Eppure, nel VII secolo riusciva spontaneo prendere il simbolo solare, quello dell’astro più luminoso di tutti della nostra galassia, la fonte luminosa a cui tutto e tutti sulla Terra dobbiamo la vita, e unirlo in modo stretto con il segno della massima abiezione e oltraggio a quanto di bello e luminoso un essere umano possa immaginare: la morte in croce.
Se non fosse che persino i cristiani si sono abbondantemente dimenticati che l’Avvento (vedere - chi ancora va a messa - il colore corrente delle pianete sacerdotali) - è un periodo di penitenza e di astinenza, non di seppellimento del dolore di vivere sotto la dissipazione delle tredicesime, certo tutti troveremmo molto meno strano che proprio ad una croce, cioè ad una morte, venga abbinato il segno della vita per eccellenza: la luce, il sole.
Perché. mi domandavo in questi giorni, per i cristiani del VII secolo dell’Isola di Smeraldo, questo segno di morte - circonfuso di sole- era un fatto che poteva - e doveva - stazionare massiccio lungo i bordi delle strade, tra le case o   vicino ai luoghi di ritrovo?
Ritengo la risposta sia che, allora, non era ancora accaduto quello ‘scivolamento’ - non si sa quanto malizioso o meno - tra una presenza sacramentale in mezzo a noi di Cristo, presenza quotidiana e irreversibile proprio grazie alla sua morte di croce, e una presenza intesa storicisticamente, come un fatto del passato, da cercare sui libri di storia.
Nell’arte religiosa contemporanea, vengono, sì, ancora rappresentati contenuti cristiani, ma tale ‘arte religiosa’ non è arte sacra nel senso vero del termine.
Essa non si inserisce nell’umiltà del sacramento e nella sua dinamica che oltrepassa il tempo.
All’immagine misterica si sostituisce ormai più solo quella devozionale.
In realtà, Cristo è quell’Oriens, quel sole che sorge ad Oriente come vincitore sul male e sulla morte e, nella sua resurrezione, ci precede. Anche per questo ‘realismo misterico’ e non devozionalistico, le chiese di una volta, quelle ancora della mia gioventù, erano sempre rigorosamente rivolte con l’abside ad est e l’altare, il celebrante erano rivolti ad est.
Il senso era, ed è, che da oriente, da est, sorge il sole della nostra liberazione.

Salmo 18(19)

“Là pose una tenda per il sole
che esce come sposo dalla stanza nuziale:
esulta come un prode che percorre la via.
Sorge da un estremo del cielo
e la sua orbita raggiunge l’altro estremo
nulla si sottrae al suo calore”

La potenza del sole, sfera di fuoco, radiante ovunque luce e calore, dà agli uomini la misura della potenza di Dio.
Il sole esce radioso, vivo, carico d’amore da donare, come uno sposo che esce dalla stanza nuziale.
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta (e che ha il volto della crocifissione, quella del nostro egoismo, in primis), e che è perfetta, perché essa ci libera dalle tenebre dell’ingiustizia.
È da est, dall’oriente dove il sole sorge, che sorgerà il nostro Signore e liberatore alla fine dei tempi.
La sua morte in Croce è la garanzia di ciò.
Lo è per tutto l’amore che, salendo su di essa innocente e ingiustamente condannato, vi ha profuso per noi.
Il memoriale della morte di Cristo è, in contemporanea, memoriale della sua resurrezione, così come l’Eucarestia perfettamente esprime.
Se nella sinagoga si guardava insieme verso Gerusalemme, così noi cristiani, dal giorno della resurrezione, ci rivolgiamo tutti assieme, celebrante e popolo, verso l’est che è Cristo.
Conversi ad Dominum”.
Questo sole che sorge, questo nostro oriente dello sguardo è un ‘nuovo principio di conoscenza ed azione’, altrimenti tutto sarebbe soltanto un ricordo per i momenti di nostalgia.
Esso, in tanto segna l’inizio della nostra salvezza e liberazione, in quanto ci ‘redime’ - attraverso la croce - dalla ottusità e presuntuosità del nostro modo di conoscere e misurare le cose, gli altri, noi stessi.
Quello che il grande dom Guèranger stigmatizzava, insegnando a pregare oltre che a riscoprire il canto gregoriano, è che gli uomini hanno sostituito la ricerca della ‘libertà’ a quella della verità.
Ma senza la continua e umile ricerca della verità - verità che nella sua totalità nessuno di noi potrai mai possedere, ma che non per questo siamo esonerati dal cercare sempre - che altro è il nostro vivere se non un vagolare nelle tenebre?
In questo periodo dell’anno, da sempre, l’umanità - con il ridursi delle ore di luce - rivive in sé le angosce primordiali di un ’umanità davanti al limite come è il buio, in tutto il suo sordo spessore.
E, allora, ecco le luci del Natale.
Tante piccole stelline senza valore però, se venisse a mancare” la luce vera, quella che illumina il mondo e che - pur essendo venuta tra i suoi - i suoi non hanno riconosciuta”.
I ‘suoi’, cioè tutti noi - magari profondendoci nell’accensione di milioni e milioni di luci e lucine natalizie - preferiamo la menzogna se la luce non siamo noi.
Ecco perché, se Natale sta a luce come luce sta a verità e come verità sta a Croce, allora Croce sta di nuovo a luce, tanta immensa luce, quella del sole - come insegnano le croci delle selvagge terre di Irlanda.
A conclusione (ma, in realtà, non concludendo proprio nulla…se non che forse… sarebbe stato più un Natale quello in Irlanda, tra il VII e l’XI secolo, nonostante vichinghi e normanni cattivoni) devo citare un passo di Ratzinger tratto dal suo scritto “Tempo e spazio nella liturgia”:
"Tra i fenomeni davvero assurdi degli ultimi decenni annovero il fatto che la croce, nelle chiese, venga collocata da un lato dell’altare, per lasciare libero lo sguardo verso il sacerdote.
Ma, domando, la Croce è forse di disturbo nell’Eucarestia? Il sacerdote è forse più importante del Signore? Questo è un errore da correggere: il Signore, proprio Lui, è il punto di riferimento."