"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Eppure, è così grande quello che sta accadendo là dentro, tra quelle pareti che odorano di disinfettante e gli spasmi della tua mamma.
Io, qua fuori penso a te, alla immensa avventura di vivere che ti attende e al tuo nome. Sì, come per ogni neonato la cosa che tutti chiedono è: “Come si chiamerà?” Appurato che sarai un maschietto grazie alle tecnologie moderne, il tuo nome è da tempo stabilito per te: "Giacomo".
La curiosità mi ha spinto comunque a cercare a quali santi sia dedicato il 19 Novembre e ho trovato il santo dal nome più improbabile al mondo, Barlaam, che per essere così improbabile non ha mancato di essere il nome di un tuo trisnonno, vissuto là sul finire del ‘700 in Friuli. Una vita ricca di stenti, come dalle carte trovate ho potuto constatare, in una landa il cui nome dice già tutto: “Terre magre”.
Ma, a parte il fatto che oggi in queste Terre magre si produce un ottimo vino, durissimo ovviamente da produrre, Barlaam, meglio, Barlamo come è stato italianizzato nel caso del trisnonno friulano, è il nome di un martire siriaco dalla tempra eccezionale: per non cedere all’imposizione di sacrificare, incensandolo, all’Imperatore, riuscì a resistere fino allo stremo con i carboni e l’incenso infocati sul palmo della mano, resistendo a farne cadere anche la minima parte sul braciere il che avrebbe voluto dire aver sacrificato all’imperatore. La sua mano bruciò e lui con essa, ma non cedette.
Questa è la coincidenza, ma mai si tratta solo di coincidenze, con una storia lontana che ti/ci precede.
Barlaam e, con lui, Barlamo antenato, ti siano a fianco lungo la tua lotta a non cedere mai alle lusinghe del mondo, quando ti ci avventurerai.
Riguardo al nome e alla sua importanza per noi, ti copio un passo di Romano Guardini il quale, con le sue splendide riflessioni, ti parlerà meglio della nonna della ‘sottile parete’ che ci separa dal nostro Tutto e Sempre.
Ben arrivato piccolino.


"Io non sono un ‘caso’ fra tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’essenza generica, ma un’essenza che ha l’impronta dell’unicità: porto un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questa determinata persona. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nella natura generica ‘uomo ‘. Non si sperde nell’articolazione dell’universo, e Dio solo lo sa. Perciò io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono essere portati alla condizione di realtà cosciente con maggiore o minore facilità. Quanto più nobili e più profondi, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’incontro con Dio. Questa cognizione intorno a Dio; questa cognizione di ciò che intercede tra Lui e me soltanto; questo rivelarmi a me stesso al suo cospetto, è la coscienza nella sua ultima profondità religiosa. Io debbo fare la mia parte nel mondo in corrispondenza al nome che da Lui ho ricevuto. E tale divento solo a patto di compiere la volontà di Dio a mio riguardo. Ma questa volontà mi vien presentata, di volta in volta, dalla situazione.
Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio. Come questa determinata persona, io vengo creato e ricevo un nome; come questo «tal dei tali» vengo rigenerato e ricevo un nuovo nome; vengo battezzato per divenir figlio del padre. L’Apocalisse esprime ciò che qui mi viene dato, che rimane ancora occulto, ma un giorno diverrà manifesto, nella proposizione: «Voglio dargli un sassolino bianco con su scritto il nuovo nome, che nessuno conosce, se non colui che lo riceve».
Noi siamo schiavi non soltanto delle impressioni, ma anche degli uomini. Abbiamo istinti gregari. So che esiste anche la misantropia e, certo, non è il caso di coltivarla. C’è il destino della solitudine, che non trova nessuno con cui possa convivere. Nemmeno di questo intendiamo parlare. Parliamo di qualche cosa che non ha nulla di tragico, ma è invece estremamente da commiserare, dell’istinto gregario, troppo diffuso fra gli uomini; di quel bisogno di sentire intorno a sé sempre del chiasso; di voler sentir sempre chiacchierare; di non saper riservar nulla per noi soli e di non saper da noi stessi venir a capo di nulla.
Il raccoglimento sarebbe qui l’esercizio della solitudine e del silenzio.
Come sarebbe dunque a dire: non correre subito da altri, ma saper rimaner soli. E non per altro motivo che per cavarsela una buona volta da soli. Sbrigare una faccenda da soli, pur avendo alla mano qualcuno da poterne discorrere; e ciò all’unico scopo di acquistare una maggior indipendenza di giudizio e di deliberazione. Esercizio del raccoglimento sarebbe il tener per sé una storia o un avvenimento.
Poi la ricerca della quiete e della solitudine: scegliere la via più modesta, anziché quella ricca di vetrine e di lampioni, fare un passeggio da solo, anziché in compagnia; rimanersene una sera tranquilli a casa, invece che andare in visita; rimaner soli una giornata intera, a casa, oppure, ciò che è particolarmente bello, all’aperto. Forse addirittura alcuni giorni di ritiro. Tali periodi portano refrigerio e concentrazione. Se ne esce del tutto purificati.
E ricordati di sostare, di tanto in tanto, e a riflettere sulla portata delle cose, a sottrarti talvolta all’incalzante tumulto delle cose che passano, e a tender l’orecchio a ciò che sta avvenendo. È un assuefarsi a gettare sguardi retrospettivi, per esaminare il proprio operato; a riguardare il passato non come definitivamente liquidato, per la sola circostanza esteriore ch’è trascorso, ma a farlo agire su di noi dai suoi strati più profondi."

“Sono in continuo ascolto, dammi un segno,
Io sono assai vicino.
Solo una parete sottile ci separa”

(R. M. Rilke)

 
(immagine: Giuseppe Pellizza da Volpedo, Idillio di primavera)