"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Ero tutta immersa nella meditazione del fatto che proprio quel luogo, a metà strada tra Assisi e Roma, a strapiombo sulla Nera e incastonato nel cuore dell’Italia, era il luogo ispiratore delle famose Cronache di Narnia. Cercavo di collegare due cose apparentemente impossibili da mettere assieme: la grande fantasia di un narratore, per di più straniero, e l’evidente ordinarietà, se pur non del tutto  scevra di fascino, del piccolo borgo umbro.
E a Narni, meglio a Narnia, cioè al regno fatato dove, attraversando un banale armadio stracolmo di ciarpame in disuso, si entra solo per fede e purità di cuore, di colpo pensavo durante un funerale, giovedi.
Il defunto alle cui esequie ero li a partecipare, in realtà non era morto - per me - da due giorni, come ovunque si  diceva, ma dieci anni prima. E trovavo surreale, quasi come stare rinchiusi in un armadio, il fatto di onorare una morte - per me -  accaduta da tempo.
L’armadio delle cronache - pensavo - in fin dei conti si lascia attraversare, come un varco dimensionale, quale esso è. E al di là appare un mondo meraviglioso, se pur congelato dal freddo inverno che attende un gesto d’amore per sciogliersi.
Pensavo a come, pur giungendo al varco dimensionale, la caduta dell’amore e della fede che esso esige, si cristallizzi in una rigida struttura che, più di un contenitore di oggetti e abiti usati, non è.
Si può restare per sempre al di qua del varco e accontentarsi dell’armadio, a due, sei, otto ante che esso sia.
Si può parlare della bellezza del mondo a cui il varco prelude, una volta accettato che sia un varco, finché esso non si riveli per quello che effettivamente è: un rischio. E quindi, di fatto, restarsene ben rannicchiati nell’armadio.
Lo pensavo, e riflettevo sulla distonica tempestività di trovarsi a delle esequie per chi, scegliendo l’armadio, e lasciando chi diceva di amare andarsene da solo, nel gelo e nella neve a lottare, in realtà, era già morto da tempo.
Un amico muore nell’esatto istante che al posto della tua mano che trema di paura, in realtà sta afferrando un suo sogno, in cui il dolore che il tuo dolore provoca non può esistere, non può aprirgli il varco, perché non è solo cianfrusaglia tra altre cianfrusaglie nell’armadio.
Era senz’altro morto anche quando sembrava vivo: ti guardava e non ti vedeva; gli parlavi e non rispondeva; sprofondavi e lui afferrava l’aria anziché la mano che porgevi disperatamente.
Ma la realtà è che tu devi oltrepassare improrogabilmente il varco, e lui, dopo tante avventure vissute assieme, rimarrà tra le cianfrusaglie dell’armadio, nel timore che, tolte quelle dal suo sguardo, finirebbe per lui tutto.
E ti dici: "Non era con lui che una volta avevi appeso uno di quei proclami, quasi quotidiani nei licei degli anni ‘70? Quello che, estrapolando la frase dal Mestiere di vivere di Pavese,  diceva ’Da chi non è pronto - non dico a sacrificarti il suo sangue, che è cosa fulminea e facile - ma a legarsi con te per tutta la vita - non dovresti accettare neanche una sigaretta’.”
La questione, è che io non fumo.
Non ho mai fumato.