"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Intanto che procede verso il giudice, ecco che questo personaggio, di nome Eutifrone, si imbatte in Socrate.
E così inizia uno dei famosi Dialoghi scritti da Platone, per tramandarci la sapienza del suo maestro, Socrate appunto.
Socrate si trova lì perché tra non molto subirà a sua volta un processo, e relativa condanna a morte per cicuta.
Veniva accusato di empietà, ovvero di non rispettare in maniera dovuta le norme religiose della pòlis, che erano fondamento di tutta la convivenza civile di allora, nella sua patria.
I motivi per cui Socrate veniva percepito come un sovvertitore di costumi, adesso lasciamoli stare.
Trovandomi tra le mani il libretto dell’Eutifrone, dopo tanti anni dal tempo in cui studiavo l’argomento per l’Università, mi sono stupita di come non ci sia mai nulla di nuovo sotto il sole.
Si vede una ragione ‘critica’ che per amore dell’indagine, che non può non renderci simpatico il conduttore dell’indagine stessa, in realtà sta distruggendo un serbatoio di speranza come solo oggi, epoca in cui però la verità è stata resa incontrabile a tutti, a differenza del IV secolo avanti Cristo in cui qui ci troviamo, si sta facendo.
Mutatis mutandi, non possiamo negare che, nelle parole che Platone gli mette in bocca, Socrate - con il puro filantropico intento di arginare la creduloneria e un uso della ragione basato sulla consuetudine piuttosto che sulla ricerca della verità - sta qui compiendo un gesto piuttosto cruento.
E lo fa ‘banalmente’ limitandosi a chiedere se sia razionale ritenere che esista la possibilità di affermare che una cosa sia un bene e una cosa un male.
Tutta la sensibilità e consapevolezza religiosa e civile dell’interlocutore sembra scomparire sotto una serie di pressanti domande.
Domande mirate a metter in fuga questa sorta di sacerdote-indovino che, in una mattina di ordinaria routine, era deciso a far sbattere in galera il padre.
Ma, e qui sta la cosa interessante, questa denuncia che si recava a fare contro il proprio genitore, non nasceva né per vendetta né per voglia di nuocere a qualcuno che-forse- gli aveva fatto a sua volta del male.
No, semplicemente perché, avendo assistito ad un comportamento alquanto disumano dell’uomo, l’atteggiamento del quale arriverà a causare la morte di un proprio dipendente, sente che occorre riparare con una giusta sentenza.
Sente, cioè, che occorre giudicare, valutare, esprimere una parola di condanna là dove il male è stato perpetrato, chiunque sia colui che se ne renda responsabile.
E tutto questo - come leggiamo nel corso del Dialogo - rispondendo alle domande senza pietà che gli rivolge Socrate, egli intende compierlo esclusivamente per amore e rispetto degli dèi, garanti della corretta gestione delle cose tra gli uomini.
Senza attaccare direttamente questi dèi, a cui evidentemente comunque non crede, Socrate attacca il fatto che da parte nostra sia possibile fare qualcosa che agli dèi possa minimamente interessare, frutto del nostro desiderio di compiacerli e, addirittura, di essere santi. Appurato che - secondo Eutifrone - essere santi è prendersi cura di quanto agli dèi è dovuto, Socrate lo costringe a riconoscere-fino a farlo allontanare senza più ribattere nulla - che non sia possibile un ‘vantaggio’ per gli dèi grazie ai doni o dalla cura che noi ci prendiamo di loro.
La consequenzialità logica, a mio avviso semi sofistica, adottata da Socrate è la seguente: “santo: ciò che è caro agli dèi/caro agli dèi: vantaggioso per loro”.
Ovviamente, per un dio del tipo concepito in una religione non rivelata come quella greca, nulla poteva necessitare o essere ‘vantaggioso’ per sé stesso, in quanto tale, offerto da parte degli uomini. Quello greco era un dio che, partorito dalla mente per un ‘ esigenza puramente umana di configurarsi un ‘primus’, al quale riferire la propria esistenza, necessariamente non aveva bisogno di nulla, tranne che di sé stesso.
Questo è esattamente il concetto di dio che una mente puramente umana può elaborare: uno che sta meglio di me e che non ha nessuno dei bisogni che ho io.
Certamente un dio così - e il mondo greco prima e latino poi (basta pensare al De natura deorum di Cicerone) non tarderà a riconoscerlo- si espone a critiche molto forti.
A partire all’insanabile debolezza di dèi configurati esattamente con le passioni tipiche degli esseri umani, per comunicare con i quali occorrevano intermediari pittoreschi e il più delle volte ambigui.
Tuttavia, nella critica che Socrate muove alla religione affermata da Eutifrone, intesa come cumulo di convenzioni puramente gratuite, quello che appare mortificato, è, in fin dei conti, il ‘perché’ ultimo per cui gli uomini-siano déi greci, siano divinità indù o sciamaniche o altro di altre culture - si siano dati questa invenzione.
L’invenzione, quando parliamo di religioni, con tutto quanto in talune di esse si possa trovare di accessorio e imbarazzante, in realtà, rivela un’esigenza fondamentale della persona umana: quella di giustizia.
Un’esigenza che deve fondare, e non può non farlo, l’intera convivenza umana.
Ratzinger esprime bene come questa esigenza esprima un’essenziale connessione tra tre ordini: culto-diritto-ethos.
Dice: “Un diritto che non si basi sulla morale, diventa ingiustizia; morale e diritto che non prendano le mosse dal riferimento a Dio, degradano l’uomo perché lo privano della sua misura più elevata e della sua possibilità suprema. Un ordinamento delle cose umane che non riconosca Dio, sminuisce l’uomo. Per questo, in ultima analisi, culto e diritto non possono essere completamente separati tra loro” Come cristiano, Ratzinger spiega ulteriormente, e significativamente divergendo dalla sapienza socratica per cui la divinità non ha ‘bisogno’ degli uomini: “Dio ha diritto alla risposta dell’uomo, all’uomo stesso, e laddove questo diritto di Dio scompare del tutto, si disgrega anche l’ordinamento giuridico umano, perché gli viene a mancare la pietra angolare che tiene assieme tutto” (La natura della Liturgia, Opera omnia, vol XI)
Per questo motivo, se anche un dio (che Socrate non definisce certo ‘inventato’, ma che - come fa ben capire - lo è) non abbia nessun bisogno che gli uomini facciamo qualcosa ‘per lui’, ciò non toglie che ‘fare qualcosa’ per un dio esprimesse, già allora, prima di tutto, la necessità di fare qualcosa per sé stessi.
Se il dio Giove o la dea Atena sono solo proiezioni delle menti umane e come tali si compiacciono della loro beata immobilità e indefettibilità, resta altrettanto vero che gli uomini li hanno ‘inventati’ perché avevano bisogno e sete inestinguibile di giustizia.
Riconoscere che un padre, anche se è nostro padre, ha sbagliato, indica un livello altissimo di desiderio di verità e quindi di giustizia. Ed Eutifrone, il greco della ‘consuetudine’ senza consapevolezza critica, l’uomo che rende onore ad un ‘dio che ha la bocca e non può parlare, ha gli occhi e non può vedere, le orecchie e non può sentire’,
non può negare la grandezza di aspirazione che sottende ai poveri, ambiziosi e speranzosi, desideri umani.
Si tratterà, come lo stesso Platone vaticinerà più avanti ,attraverso le parole di Simmia, di trovare un mezzo che esuli dalle nostre semplici forze:“ Socrate forse sarai anche tu del mio parere che essere così sicuri su certe questioni sia una cosa impossibile, o per lo meno molto difficile, almeno in questa vita; d’altronde , io penso che lasciar perdere il problema sia proprio dell’uomo dappoco; quindi non c’è altro da fare: o imparare da altri, o trovare da sé, oppure accettare l’opinione degli uomini, la migliore s’intende, e, con essa come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza. A meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su di una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina” (Fedone)
Un ‘aiuto’ che ci dia il mezzo su quale avventurarsi nel mare sconfinato della domanda di verità, quella domanda che - da soli - non possiamo comprendere come sia possibile affrontare.
E, infine, un aiuto a trovare il motivo per cui farlo, il bene, o per cui evitarlo, il male.
Perché l’unico Dio, rivelandosi, non quello frutto delle costruzioni umane, ha detto che solamente districandosi tra queste due realtà ineliminabili lungo il cammino, cresce la vita degli uomini , tra di loro e con se stessi.
Questo Dio, il Dio d’Israele, manifestatosi in Cristo, ‘si commuove’ dentro di sé per noi e non trova riduttivo com-patire con noi, sia quando lo feriamo che quando lo magnifichiamo, perché stiamo ferendo o rendendo grandi noi stessi, prima di tutto.
Nelle parole amaramente disincantate, con cui Socrate fa muovere in fuga il suo interlocutore, è insito - oggi, dopo tanti anni me ne rendo conto - un grido di disperazione.
Quella di tutti se non ci fosse stata manifestata la grande possibilità: il Logos che si è fatto carne.

(immagine: Svetlana Nikolic)