"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

La non-normalità è, invece, il vizio, il fare e scegliere in maniera scorretta facendo prevalere interessi personali egoistici o autoadulatori.
La ‘moralità’, quindi, lungi dall’essere un forzoso essere conculcati in modelli calati dall’alto, è ‘banalmente’ la via scelta dall’essere umano in pace con se stesso.
Il vizio, la deviazione, il comportarsi scorrettamente, sono effetti di una ‘inadeguatezza’ pratica , di un ‘incompetenza riguardo ciò che veramente siamo.
Un ‘dirottamento’.
Derivato, questo ‘dirottamento’, da inciampi di fatto.
Il vizio - chiamiamo così in maniera sintetica ogni e qualsiasi scelta per un male - fa il chiasso e la ridondanza attorno a noi che il bene, solitamente, non fa.
Questo, sorprendentemente, ma realisticamente, perché il bene è naturale per l’uomo, come bere un bicchier d’acqua quando si ha sete; il male richiede, invece, un gran dispiegamento di mezzi per attecchire là dove non era stato pensato uno spazio per esso.
Tutto questo, che è un pensiero di Bellezza su quei poveri vermi che noi tutti siamo, emoziona pensando soprattutto alle critiche fatte al preteso ’oscurantismo’ e rigorismo mentale medioevale.
Viene oltretutto fatto di chiedersi - come spesso possiamo constatare in relazione ai comportamenti nostri e dei nostri simili - se, allorché non si riesca ad essere all’altezza di noi stessi, malauguratamente il meccanismo che entra in funzione non sia drammaticamente negare che - rispetto a quello che noi abbiamo già scelto e già fatto, solo perché lo abbiamo scelto e fatto - possa esistere qualcosa di ‘diverso’, il bene, per esempio
Il nostro autore medioevale prosegue: “La virtù (cioè il voler fare il bene, nota mia) è un uso della nostra volontà ‘libera’, che si muove secondo il giudizio della ragione”.
Certamente, l’uso di ragione è fortemente sconsigliato da media e opinion maker contemporanei, quindi la questione di un uso corretto di essa stenta a essere intesa.
Tuttavia, l’incorreggibile ottimismo medioevale, sa attribuire alla ragione umana l’individuazione di ciò che è bene, per il solo fatto di essere tale.
Se, poi, la ragione non rispetta la libertà della volontà - che può aderire al bene qualora non le si pongano ostacoli più o meno emotivamente forti - allora, semplicemente non ci stiamo comportando da persone umane.
Ciononostante, una pura e semplice ‘equità’ di vita, conforme in tutto alla ragione (cosa forse possibile parlando di… eroi) ha - nel caso si desse - sempre comunque bisogno di altro, rispetto alla sua stessa equità.
Viene in mente San Bernardo quando - contestando le pretese dell’illustre Abelardo- afferma: “Cosa mai esiste di più contrario alla ragione di una la ragione che con la stessa ragione prova a trascendere se stessa”?
È così vero se pensiamo anche solo per un istante che nessuno - solo perché sa (ipoteticamente) cosa sia il bene, lo riesce ipso facto a compiere.
Occorre quella luce, che la ragione non si dà con la stessa ragione, la quale renda effettivamente ‘adeguata al reale’, cioè buona ed utile, la nostra intenzione.
Forse ci potremmo ricordare di questo, talvolta, nell’ammirare qualche mosaico - naturalmente medioevale - come quello di Monreale, per esempio, dove, nel mare di tesserine d’oro risplendenti che fanno da sfondo al Pantocreatore, è impresso a chiare lettere: “Io sono la Luce: chi segue Me, non cammina nelle tenebre”.
La carità, che è amore della luce, di ciò che rende ragione la nostra ragione, è la marcia in più per permettersi la veritas in electione, aspetto forse più essenziale di ogni qualunque, per quanto buona, ma semplice intenzione.
Sarebbe bello, secondo me, volere il bene in ciò e per ciò che operiamo, per ciò che - chi o che cosa abbiamo innanzi a noi - è veramente, non solo perché possa rispondere ai nostri sogni.
È quanto - a mio avviso - ricorda un libro per ragazzi, nel passo in cui tratta le domande da porsi come preparazione alla Confessione.
Premetto che, oggi a Catechismo, non si usa più chiamare Confessione il Sacramento della Penitenza, bensì “Festa del perdono”, dando per scontato che non è un momento in cui sottoporci ad un giudizio - sia pure utile alla nostra crescita - ma un passaggio dopo del quale torneremo a casa, comunque, felici, contenti e sicuramente ‘assolti’.
Ma qualcuno ancora che vorrebbe spiegare il valore reale i dei Sacramenti, c’è.
Imbattendomi in uno di questi, mi son felicemente sorpresa di trovare quanto segue.
Lo riporto, scrivendolo qui come l’ho scritto in una delle lettere - piene di nostalgia per loro - che scrivo alle nipotine lontane.
Lascio anche le riflessioni personali che ho pensato di aggiungere per loro (e per me).
Siamo comunque in Quaresima, no?
- “Mi rendo conto che non basta semplicemente NON peccare, ma che bisogna fare il bene”?
- “Mi dispiace che gli altri siano alle volte più bravi di me? Sono invidioso”?
E infine: - “Penso alla felicità degli altri”?
Se queste domande è molto giusto porle a dei ragazzini, quanto più importante e utile sarebbe che se le ponessero i cosiddetti ‘grandi’!!!
I ‘grandi’ spesso pensano che- se danno dei soldi - quando sono generosi - o fanno una visita, come accade negli ospizi per i vecchietti - una volta all’anno - ti stanno volendo bene, e che la loro coscienza può considerarsi a posto.
Ma, quasi mai, questi ‘grandi’ si chiedono, con la stessa sincerità dei bambini, se gli altri a cui facciamo delle cose per metterci la coscienza a posto, siano poi, almeno un pochino, felici”.

(immagine: MAURICE DENIS - Sunset)