"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Indica - a mio avviso, ed è per quello che questo titolo mi frulla spesso nella mente - lo stato confusionale di molti, moltissimi di noi.
Ripensavo al palpabile dolore di un’amica lasciata dal marito dopo 25 anni di matrimonio e, oltre al senso di riprovazione verso l’autore del misfatto, non potevo non dirmi: “Ma forse non era amore, era un calesse”.
Non voglio sostenere che le centinaia e centinaia di matrimoni che ormai quotidianamente si sciolgono, ognuno con casistica sua specifica, siano tutti in realtà dei calessi.
Calessi di cui non ci si rendeva conto al momento di prendere la grande decisione di ‘amarsi per tutta la vita’, con relativi scambi di promesse ed anelli.
Certamente no.
Tuttavia è indiscutibile che la stragrande maggioranza, parlando del proprio fallimento coniugale, affermi di non capire esattamente cosa sia successo, anche sapendo indicare la goccia che, un bel giorno, ha fatto traboccare il vaso.
E - secondo me - altro non è stato che credere amore ciò che era un ‘calesse’.
Siamo noi, infatti, che dobbiamo per primo interrogare noi stessi se, quel giorno, non fossimo stati convinti di stare facendo una cosa mentre - forse - ne stavamo facendo un’altra.
E conseguentemente, per fortuna verrebbe da dire, arriva anche un giorno in cui uno - magari proprio grazie all’inziale affetto del coniuge che ora ci abbandona- vede che stava facendo tutt’altro da quello che credeva di fare, sposandosi.
Accade così in moltissime altre situazioni della nostra vita: si crede di stare portando avanti un progetto e invece scopri che si lavorava al suo fallimento.
A questo punto, qualcuno potrebbe pensare che io stia giudicando l’impresa di vivere una vera e propria mission impossible.
Tutt’al contrario.
Siccome il mio pragmatismo (o forse, semplicemente, realismo) di fondo, mi porta a ritenere che le cose sconclusionate e dolorifiche debbano una spiegazione e si possa/debba trovare il modo per renderle meno dolorifiche, ecco che, spingersi fino a capire se parliamo di calessi o di amori, è fondamentale.
Noi tutti spesso siamo soprappensiero e diciamo dei sì che non avremmo mai dovuto dire.
Allora è chiaro che la soluzione del dramma non va cercata nel come si è configurato il dramma, ma dichiarando obsoleto il dramma stesso e saltandone fuori.
È molto illuminante Mélanie Klein al riguardo.
In pratica lei dice: “quando un bambino che non riconosce l’esistenza di nessuno, tranne la propria, si accorge che non tutti i suoi desideri immediati sono soddisfatti, sente vuoto e solitudine e una rabbia piena di odio e di aggressività verso proprio coloro che di lui ordinariamente si prendono cura”.
Qui il dolore porta ad una strana consapevolezza di 'amare': sotto forma di puro desiderio; e ad uno strano riconoscimento della propria ‘dipendenza’: come forma di bisogno.
È qui che ci avviamo al compito vitale di proteggere il nostro istinto di conservazione ed i nostri personali piaceri: qui, cioè, iniziamo a produrre ‘autorassicurazioni’.
Esse sono vere e proprie misure di sicurezza contro il sentimento del dolore e la nostra sensazione di impotenza.
Tutti i sentimenti e le sensazioni dolorose o spiacevoli della nostra mente sono relegati, in automatico, fuori di noi e li rimproveriamo SU qualcun altro.
L’aggressività che preme dentro di noi verso chi non possiamo controllare per piegarlo alla nostra soddisfazione pulsionale immediata può talora diventare semplicemente intollerabile.
Accade che qualcuno che possiamo grandemente amare e desiderare possa al contempo diventare colui che dobbiamo derubare e distruggere senza mezzi termini.
Nell’infanzia, questo significa distruggere la madre stessa e quel bambino che non possiamo più essere noi, perché da lei staccati con la nascita, quel bambino che lei ama e possiede come una parte di se stessa.
Noi che abbiamo, quindi, creato focolai di infezione, possiamo trovare ora il quid su cui liberamente sfogare ostilità ed odio.
Le forze distruttive interne a noi sono, oltretutto, fonte di ulteriore dolore per noi stessi e, così, l’altro verso cui sto proiettando il mio odio, mi diventa ancora più odioso, per il dolore che odiarlo mi genera.
E il non odiarlo - tuttavia - mi è impossibile.
Distribuiamo, crescendo - e questo è un bene, una necessità - i nostri bisogni di soddisfacimento fondamentali altrove, ed ecco che fame e piacere sessuale combinano le grandi e o le meschine storie che correntemente chiamiamo d’amore .
E invece erano probabilmente solo un calesse.
Se un certo grado di svalutazione di ogni persona amata è inevitabile, ciò, spesso, supera il rendersi conto che la persona desiderata è stata troppo generosamente idealizzata.
Quanti ‘esperti’ psicologi nei mille talk show di cronaca nera che ci sommergono su ogni canale TV in meno troverebbero allora lavoro!
Quanto utile sarebbe stata l’opera di educatori, soprattutto cristiani, un minimo di più consapevoli che le stesse dinamiche evidenziate dalla Klein, prima ancora da Freud e dopo da tanti altri, sono la condizione ‘normale’ degli esseri umani, dai tempi dell’invidioso Caino. Immagino quanta confusione e calessi in meno ci potrebbero essere se essi si fossero resi interpreti di una lettura ‘di fede’, cioè veramente adeguata e realistica, della vicenda umana.
La fede cristiana ma prima ancora quella ebraica ed in genere ogni religione anche non rivelata, purché onesta, ci dice che ogni persona, dal momento in cui prende coscienza di se stessa, si vede messa in confronto con una trascendenza.
La prima trascendenza che la Chiesa difende (o dovrebbe difendere) proprio su questa base è quella sessuale.
È infatti la differenza sessuale che ci obbliga a pensare al di là di noi stessi e riconoscere come tale un altro essere inaccessibile, essenzialmente simile a me, desiderabile eppure mai totalmente comprensibile, delimitabile nella circonferenza del mio piacere personale.
L’esperienza della differenza sessuale - con buona pace di chi la vuole eliminare derubricandola a consuetudine ‘fuori moda’ - è in realtà propriamente il modello di ogni esperienza della trascendenza e della possibilità che un rapporto sussista anche quando non posso controllarlo e ridurlo alla soddisfazione dei miei desideri immediati.
È su questa base - ricorda J. Ratzinger - che possiamo comprendere perché la Bibbia scelga di utilizzare l’amore tra uomo e donna come metafora del rapporto tra Dio e creatura umana.
Il rifiuto della differenza, quindi del ‘limite’, in una visione antropologicamente corretta delle vicende relazionali umane, in un’antropologia aperta, viene descritta con il termine ‘peccato’.
E, in quest’ottica, quel modo di conoscere, accettando di non essere tutto, apre all’amore, diversificandolo dai calessi.
Rifiutare il limite, quindi la differenza, è piuttosto un mangiare l’altro, nella speranza di ricostituire in sé il tutto: questo rifiuto della relazione come accettazione dell’irriducibile alterità, anche e soprattutto sessuale, conduce direttamente alla bramosia, alla violenza, fino alla morte.
L’abolizione della figura del padre nella nostra disgraziata epoca porta esattamente a questo: ad intendere la libertà come negazione dei limiti, fine di quell’apparato ordinatore della convivenza che era garantito dalla figura paterna, e che un tempo salvava dalla disperazione tipica del bambino.
Un bambino che permane anche sotto le spoglie dell’adulto moderno e che sostanzialmente non può accettare di non essere Dio, cioè di dover uscire dal delirio comune a tutti gli infanti, quello di onnipotenza, ma dovendo vivere in una dipendenza, dalla madre innanzitutto, e da chi gli vive accanto poi, in una simbolizzazione che salva.
L’amore, però, vive del legame.
Legame significa sempre invariabilmente anche sofferenza: come quella del bambino che scopre di non poter fare quello che vuole della propria mamma.
Accettare di dover soffrire è la vera cosa che distingue, forse, un amore da un calesse.
Chi ama, a differenza di un calesse, soffre, e proprio per questo - spiega J. Ratzinger - non rimane chiuso in se stesso, non tutela ad ogni costo il proprio ‘io’, riuscendo a superarlo e farlo esprimere veramente.
Senza un padre, quasi impossibile farlo.
Senza il Padre, pura fantascienza.

(immagine: Joan Mirò, Blu)