"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Prendo spunto dal fatto che proprio questa frase del Padre Nostro - ‘e non ci indurre in tentazione’ - sia stata manomessa da traduttori senza cultura e senza rispetto - un po’ come per tante altre cose legate alla nostra Fede - e quindi rappresenti per la maggioranza dei fedeli la perdita incomprensibile quanto lo stesso Signore ci ha insegnato.
Non è infatti invenzione di qualche saggio o dotto dei tempi andati, la formulazione del Padre Nostro, ma-come si insegnava un tempo a catechismo - è la preghiera del Signore.
Nel senso di genitivo possessivo: è Sua, l’ha inventata Lui.
Tutta l’opera ed il Magistero di Ratzinger hanno dovuto subire attacchi riduzionistici e infondati razionalmente, così come li subisce da sempre la Fede cristiana, e mi piace qui, ricordandolo, porre un esempio.
Non è chi non veda quanto poco nella formulazione imposta dall’alto arbitrariamente oggi si salvi del cuore stesso di Cristo, il quale così - come la recitavamo una volta - ce la volle insegnare.

"E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE"
le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certamente in tentazione!
Di fatto san Giacomo afferma: "Nessuno, quando è tentato dica: Sono tentato da Dio! perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male" (Gc1,13)
Ci può aiutare a fare un passo avanti ricordarci della parola del Vangelo: "Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo" (Mt4,1).
La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio.
Egli deve - come abbiamo visto - sperimentare su di sé queste tentazioni sino alla morte in Croce ed aprirci in questo modo la via della salvezza.
Così, non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo 'discendere negli inferi', nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l’alto.
La Lettere agli ebrei ha sottolineato in modo particolare questo aspetto: "Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere personalmente sofferto, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (Eb 2,18)
"In fatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato" (Eb 4, 15)
Ulteriori schiarimenti ce li può dare uno sguardo al Libro di Giobbe, in cui per tanti aspetti, già si delinea il mistero di Cristo.
Satana schernisce l’uomo esplicitamente per schernire in questo modo Dio: questa Sua creatura, che Egli ha formato a Sua immagine, ecco che è una creatura miserevole.
Quanto in essa sembra un bene, in realtà è solo facciata. Quello che in fondo interessa all’uomo solo e sempre il proprio benessere.
Questa è la diagnosi di satana, colui che Apocalisse 12,10 definisce "l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte".
La diffamazione dell’uomo e della creazione, in ultima istanza è solo diffamazione di Dio, autogiustificazione del Suo rifiuto.
Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l’uomo, ma permette che venga messo alla prova.
Qui traspare già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della vicarietà, che prenderà forma grandiosa in Isaia 53.
Le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo che ristabilisce l’onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere, neppure nell’oscurità più profonda, la fede in Dio.
Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduca ad una profonda unione con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova.
L’uomo ha bisogno di purificazioni che per lui sono pericolose, che possono provocare la caduta e che però costituiscono la via indispensabile per giungere a sé stessi ed a Dio.
L’amore infatti è sempre un processo di purificazione, di rinunce , di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di crescita e maturazione.
Se Francesco Saverio poteva pregare Dio dicendo: "Ti amo, non perché puoi donarmi il Paradiso o evitarmi l’Inferno, ma semplicemente per quello che sei, mio Re e mio Dio", era stato certamente necessario un lungo percorso di purificazioni interiori che lo avevano condotto a questa libertà - un percorso in cui era sempre in agguato la tentazione, il pericolo della caduta - e, tuttavia, un percorso necessario.
Con la sesta domanda del Padre nostro, in sintesi, noi diciamo a Dio: "So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se Tu decidi - come nel caso di Giobbe - di sottopormi a queste prove, se darai un po’ di mano libera al Maligno, allora, per favore, pensa alla misura limitata delle mie forze. Non credermi, ti prego, troppo capace. Non tracciare troppo ampi confini entro i quali io possa essere tentato e siimi vicino con la Tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me".
San Cipriano in questo senso ha interpretato la domanda "non ci indurre in tentazione" dicendo: "Quando chiediamo di non indurci in tentazione, esprimiamo la consapevolezza che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore, devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al maligno se non gliene viene data la facoltà".
Poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione egli ci spiega che per due differenti motivi Dio può concedere un limitato potere su di noi.
Il primo: per smorzare la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere, sperare, amare e non presumiamo di essere grandi da noi stessi.
Il secondo motivo che purtroppo Cipriano non ci spiega ulteriormente è la tentazione ci viene imposta ad gloriam Dei.
Qui direi che è il caso però di ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso sulle spalle delle persone da sempre a lui particolarmente vicine, quelle dei grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresina di Lisieux nel pio ondo del suo Carmelo.
Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come vera e propria apologia dell'uomo, che è - al contempo - difesa di Dio.
Anzi: sono in modo particolare in comunione con Gesù che ha sofferto fino in fondo tutte le nostre tentazioni, Questi santi sono stati chiamati a superare nel proprio corpo, nella propria anima, le tentazioni di un'epoca, a sostenerle per noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che su di Sé ha preso il gravame di tutti noi.
Nella sesta domanda del Padre Nostro dovrebbe essere racchiusa perciò, da un lato, la disponibilità nostra a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare: che non ci lasci mai cadere dalle Sue mani con san Paolo: "Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma, con la tentazione , vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla" (1Cor 10, 13)