"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Con Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) va inteso tutto quanto, per prima la Fede spiccatamente interpelli lei stessa, ponendosi nel mondo, altrimenti non è di Fede che si parla fede, ma solo di sentimentalismo.
Cerchiamo ora di mettere a fuoco le variazioni della DSC dopo il Concilio. La questione deve essere divisa in due fasi: fino a Benedetto XVI e nel pontificato attuale. Nella prima fase le variazioni ci sono state, in dipendenza dalle fessure contenuto nei testi conciliari; nella seconda fase le variazioni sono esplose e riguardano oggi l’intera DSC e non solo qualche su tema specifico.
Dopo il Concilio, il magistero non ha più detto con parole chiare che l’autorità viene da Dio. Il punto mi sembra degno di nota. Fino a Pio XI e a Pio XII l’espressione di questa derivazione dell’autorità era sempre presente. Ha anche dato delle definizioni di bene comune piuttosto insufficienti, non chiarendo se il bene comune richieda per sua esigenza essenziale la presenza pubblica del culto verso Dio, il ruolo pubblico della religione cristiana e della Chiesa. Da questo punto di vista era già carente la definizione di bene comune della Gaudium et spes che però viene ripresa quasi tale e quale dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI. Non è sufficiente dire che il bene comune è l’insieme delle condizioni che permettono alla persona umana di conseguire la propria perfezione, se non si precisa cosa sia questa perfezione e se essa possa o non possa essere conseguita senza Dio. Anche il principio di sussidiarietà ha subito delle variazioni, nel senso che non sempre è stato detto con la dovuta chiarezza che questo principio si fonda sull’ordine sociale finalistico, fuori del quale si riduce a rivendicazioni di libertà dallo Stato e dalle società superiori prive di giustificazione. Un’altra discontinuità è rappresentata dal fatto che il magistero non ha più parlato di “civiltà cristiana” e di “società cristiana”, concedendo molto ad un concetto di laicità dipendente dalle correnti del pensiero moderno e ad un concetto troppo ottimista del processo di secolarizzazione. Un’altra variazione consiste nell’accoglienza nei documenti magisteriali della cosiddetta “centralità della persona” nella quale si nota una apertura alla visione della persona tipica della modernità, frutto del personalismo cristiano di Mounier e di Maritain. Due passaggi della GS sono rimasti famosi: la persona è principio soggetto e fine della società; e l’altro: l’uomo è l’unica creatura che Dio abbia voluto per se stesso. In queste due frasi ambiguità contenutistiche ed espressive si intrecciano. Si è giustamente cercato di adoperare il concetto di persona incentrandolo in Cristo, depurandolo quindi dall’individualismo a - finalistico del pensiero moderno, ma l’operazione non è sempre riuscita al meglio.
Due ultime variazioni vale la pena di ricordare qui, ambedue strettamente dipendenti dai testi conciliari. La prima riguarda il rapporto del cattolicesimo con le religioni non cristiane. Il documento conciliare relativo al problema era molto impreciso e carente. Insigni islamisti dichiarano che le parole espresse in quel documento sull’islam denotano una considerevole ignoranza del problema. In seguito, il dialogo interreligioso ha prodotto cambiamenti anche nel campo della DSC. Si sono infiltrati due concetti poco chiari o addirittura errati: il primo è che la società multireligiosa sia un bene da perseguire in sé; il secondo è che sia possibile un dialogo interreligioso sui problemi di giustizia e pace, indipendentemente dai principi teologici fondamentali. Come vedremo tra breve, questi due principi sono addirittura deflagrati nel pontificato di Francesco dando luogo ad equivoci di grande portata. Essi però vengono da più lontano.
Il secondo riguarda il tema nevralgico della libertà di religione. La Dignitatis humanae ha posto il problema senza risolverlo. O meglio, si pensava di averlo risolto, ma così non è stato. L’argomento riguarda da vicino la DSC, perché se esiste una naturale libertà di aderire a qualsiasi religione, quella cattolica perde ogni carattere di primato e di unicità, sicché la sua DS viene ridimensionata ad una opinione di una qualsiasi agenzia sociale. Ed infatti dopo il Concilio non è stato più detto in nessun documento che la religione cattolica ha diritto ad un trattamento particolare rispetto alle altre religioni. Oggi, quando la Chiesa cattolica rivendica un proprio ruolo pubblico lo fa a partire dal principio della libertà di religione. La cosa è molto grave, perché lo stesso può fare un’altra religione e, in questo modo, la cattolica rinuncia all’assolutezza della propria verità. La verità, se ci pensiamo bene, se non è assoluta, non è.
La Dignitatis humanae dice che il diritto alla libertà di religione si fonda sulla dignità della persona, facendo credere che tale dignità possa mantenersi indipendentemente dal Dio vero; dice che non deve contrastare con l’ordine pubblico, tralasciando che l’ordine pubblico non è possibile senza il Dio vero; dice infine che questo principio nulla toglie ai doveri delle persone e delle società verso l’unica vera religione di Cristo, ma dimentica di citare il dovere degli Stati o delle autorità politiche. Non è però chiaro come potrebbero le persone e le società rendere il dovuto culto pubblico a Dio in presenza di uno Stato laico, o agnostico o ateo. La cosa contrasta con quanto affermato dalla DSC circa la negatività e il danno dell’ateismo per la vita sociale e politica.
È difficile spiegare queste discontinuità solo con una inidonea interpretazione e applicazione del Vaticano II. Esse hanno origine anche nei testi del Concilio, nella inadeguatezza di quello sul dialogo interreligioso, sulla fragilità di quello sulla libertà religiosa, nel testo complicato della Gaudium et spes che, non va dimenticato, non parla mai di Dottrina sociale della Chiesa. I fautori della lettura modernista del Vaticano II lo avevano fatto subito notare, come anche avevano fatto notare che la Octogesima adveniens (1971) con cui Paolo VI commemorava la Rerum novarum, non era una Enciclica ma solo una Lettera apostolica. Anche contrastando questa interpretazione modernista come ha fatto la Caritas in veritate, sostenendo che in realtà Paolo VI con la Evangelii nuntiandi e con la Populorum progressio avrebbe rilanciato la DSC, non si può non convenire nel dire che il Vaticano II non ha trattato molto bene la DSC.
Se arriviamo poi a parlare dell’ultima fase del post-concilio, ossia l’attuale pontificato, dobbiamo dire che la destructio della DSC ha raggiunto livelli piuttosto alti. Molti esperti dicono che con Francesco è in atto un Vaticano III non convocato. Altri dicono che siccome egli non ha partecipato al Vaticano II procede in modo assolutamente libero da queste categorie. Certamente nel pontificato di Francesco trovano voce non le posizioni di GPII o di BXVI ma le correnti ecclesiali e teologiche che li contestavano. In lui troviamo l’eco di tutta la teologia contemporanea, comprese le avanguardie rivoluzionarie. Ma questo non vuol dire che egli non si colleghi anche al Vaticano II. Si potrebbero fare molti esempi di collegamenti tra Francesco e il Concilio, ma posso soffermarmi solo su uno, che mi sembra il principale.
Lo faccio tornando al carattere pastorale del Vaticano II su cui ci siamo già soffermati. La scelta pastorale intendeva costruire una teologia della pastorale e, contemporaneamente, fermarsi davanti alla possibilità di una teologia pastorale. Nella teologia della pastorale era ancora prevalente la dottrina (teologia) che fungeva da criterio per valutare e orientale la pastorale. Questo avrebbe comportato di adattare la dottrina alla pastorale senza stravolgerla. Le cose non si fermarono però a quel punto, perché si passò alla teologia pastorale, nella quale è la pastorale che informa di sé la dottrina. A quel punto l’esistenza, la storia, le situazioni diventavano il criterio per rileggere la dottrina che avrebbe perso la propria dimensione metafisica e astorica per immergersi nelle vicende storiche del mondo. Il punto è questo: il passaggio dall’una all’altra era voluto e teorizzato dalla teologia contemporanea, specialmente rahneriana e post-rahneriana. Non fu assunto in proprio dal Concilio, che si limitò ad assumerla solo nella forma della teologia della pastorale, ossia in forma moderata, ma ciò non esclude che il Concilio recepisse alcuni punti su cui la successiva teologia pastorale avrebbe potuto sfruttare. Era inevitabile che la scelta pastorale del Concilio corresse il pericolo di trasformarsi nella teologia pastorale, che storicizza e relativizza la dottrina cattolica, riprendendo la vecchia posizione modernista secondo cui il dogma si evolve storicamente e psicologicamente. Il rischio fu corso, non so con quanta consapevolezza, e una volta corso era molto difficile impedire le conseguenze.


Dalla conferenza video del prof. Stefano Fontana
tenuta il 10 novembre 2022 su invito di Cooperatores Veritatis