"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Ricordo una volta tanti anni fa, mentre frequentavo l’università Cattolica ed abitavo presso una residenza lì accanto, di aver ricevuto una preoccupatissima telefonata da un’amica.
Lei, a differenza di me, in quel momento si trovava nella zona nord-ovest della megalopoli, dove abitava.
Guardando dalla sua finestra, e sapendo che in quel weekend mi sarei allontanata dalla città con degli amici in gita, si era preoccupata.
Vedeva, infatti, un cielo grigio e stoppaccioso, penetrabile nemmeno con una lama di coltello.
Io, dal canto mio, raggiunta la mia, di finestra, vedevo un sole smagliante e nel pieno brillìo del mezzogiorno, sia pure milanese.
Da allora, periodicamente, mi ritrovo a pensare come non basti essere sotto uno stesso cielo per vedere le stesse cose.
La zona della mia amica, San Siro, è una zona che ai tempi in cui la nebbia, quella vera, c’era, si trasformava spesso e volentieri in un posto inquietante: una coltre grigia si stendeva su tutto e racchiudeva nel suo dubbio mistero cose e persone.
La zona dell’Università, al contrario, era in pieno centro, ricca di edifici che col loro ‘calore’ scioglievano eventuali stracci nebbiosi, ma soprattutto, non era infossata in una depressione di periferia come la sua.
E da allora, quando - essendo dalla stessa parte di mondo, quindi chiamandoli con lo stesso nome - mi ritrovo a considerare fatti che, invece, ad amici e conoscenti risultano diversi da come li vedo io affacciandomi alla mia di finestra, sempre mi ricordo di quella telefonata di quaranta anni fa.
È così che ho cominciato a comprendere che, per esempio, parlando di fede, non sto parlando della stessa cosa di molti, altri magari molto più evoluti e colti di me.
Mi accorgo che la mia latitudine e collocazione geografica è quella di una vecchina che sgrana il rosario senza apparente cognizione di causa o di quell’altra che, in puro stile Deledda, vidi una volta accasciarsi in ginocchio come un fagotto di stracci sul portale di una chiesa, in Sardegna, vergognosa anche solo di oltrepassarla per porsi in qualche panca come ognuno di noi avrebbe fatto. Tranne poi, dopo una buona mezzora bocconi, là sulla porta, saltare sopra un sostegno a lato di un altare e mettersi tranquillamente, da lassù abbarbicata come una scimmia, a piazzare dei fiori dinanzi alla Madonna lì ritratta.
È, credo, la stessa fede che - a parità di nome - portò il giovane austriaco a precipitare nel Tevere idoli da quattro soldi, piazzati pomposamente in una chiesa romana, mentre personaggi gerarchicamente identificati, le si inginocchiavano davanti.
Che strana la vita! I cieli non cambiano e noi, sotto di essi, a inventarci cambi di ogni genere di prospettiva che, i cieli, non immaginerebbero mai.
In fondo può capitare ai meglio intenzionati, oltretutto, di credere di stare parlando con una persona, ma in realtà stai parlando con te stesso.
Un te stesso che dialoga con le sue immagini interiori dentro le quali non si accorge di costringere tutto quanto potrebbe mettere in dubbio la nostra mania di onnipotenza.
Cercare di escludere l’onnipotenza è un compito impossibile ed assurdo.
C’è un significato di cose e circostanze che chiederemmo di essere aiutati a cogliere per ciò che esse sono nella realtà, cioè entità circoscritte in cui l’alone della loro ‘classe di appartenenza’ (quella del possibile piacere che ce ne può derivare) non interferisce con il loro significato concreto.
Facendoli apparire più di quello che essi sono o che non sono.
Diventare cosciente di questo che è la mission di una buona analisi, almeno di quella del grande Matte Blanco, è però legato all’uso di ragione. Usare la ragione e non il sogno come ‘pregiudizio’, è legato al desiderio di trovare la verità.
Non di cercarla semplicemente. Ma di trovarla.
Altrimenti, cercare per cercare non avrebbe senso.
La verità non distrugge, come la cattiva coscienza e i gratuiti refrain di oggi ci fanno ritenere.
Un timore infondato - almeno per chi ha incontrato Cristo che di sé ha detto: “Io sono la Verità”, certamente non permettendoci di ritenere che mai noi ne saremmo diventati i possessori- ma molto ben alimentato.
Di qui la melassa delle nostre abitudini, frutto di gruppi di appartenenza come di ordinario statu quo, si trasforma, per quanto ingannevoli forme di vita, in abitudini e le abitudini in necessità e le necessità in catene.
Perfino in accecamento del cuore, come ricorda Ratzinger.
È così che, se uno decide che lui non ha mai da chiedere scusa e gli muore un amico che, però, di lui qualche volta ha pensato che sbagliava-magari senza avere la forza di dirglielo - questo qualcuno nemmeno telefona alla vedova per le condoglianze.
È trattasi di amico di vecchia data e di grande legame affettivo.
Almeno, secondo quel concetto di affetto che da una parte della città, vuole dire: dolore se tu muori.
È così che - sempre per tutelare il proprio bisogno di onnipotenza legato al riconoscimento che il gruppo, purché tu non ti faccia domande, ti garantisce - un altro arriva a declamare la grande capacità di essere seguito di un certo personaggio, perché - citando quanto lui stesso (!) diceva di sé - ‘credeva in quello che diceva’.
Il personaggio era un famoso sacerdote, ma, in questa logica avventizia avrebbe potuto benissimo essere un Renato Curcio qualunque o un Che Guevara o - perché no? - un Benito Mussolini, o uno Mao Tse Tung.
Infatti, tutti questi hanno creduto fermamente nelle cose che proclamavano.
Semplicemente, noi - persone che quel sacerdote, prima della formaldeide in cui è stato messo, abbiamo conosciuto - lo seguivamo per quello che diceva, non perché credeva in quello che diceva, o non certamente solo perché ci credeva, ma proprio per quello che - ormai mi rendo conto, nonostante lui, diceva: Cristo.