"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Cappellino un po’ di traverso sul capo e il monosopracciglio classico, a forma di graffa disperata, sopra l’occhio sinistro.
Le mani a sostenere il viso, e le dita di una di esse colte in movimento incontrollato a dire:” Guardate un po’…ma che ci faccio, io, qui”?
Difficile passare oltre. Soprattutto se - fra tanta paccottiglia - questa, almeno, è di buona fattura.
E così, dopo lunga contemplazione - lo si comprerebbe, ma il pecunio scarseggia - ti trovi a contemplare un’altra cosa straordinaria, su un’altra bancarella, lì vicino.
Tra montagne di libri vecchi e dalle pagine sparigliate, spunta in prima fila - altrimenti non lo avrei sicuramente notato - un’azzurra copertina con impressa l’immagine del paese, ormai sloveno, da cui presero il via gli incroci creativi e alquanto inverosimili da cui poi spuntò colei che bighellona tra le bancarelle oggi.
Invece spicca - protagonista della Dieta di Parenzo a fine Ottocento - uno zio della mia bisnonna.
Sfogliando il volume azzurrino ora qui sul mio tavolo, ripensi a quanto impensabile impressionante sia il fatto di non essere spuntati dal nulla come un fungo nello spazio di una notte, ma di essere - tutti, grandi e piccini - figli.
Figli di figli.
Viene in mente che essere figli non è esattamente la cosa più immediata del mondo, ma un fatto che - oltre all'episodio scontatamente generativo - si inscrive in una serie di altri fatti per nulla scontati. I fatti che ci narrano che siamo - tutti - figli.
Mancando i quali, poi, inutile chiedersi “come mai c’è tanta violenza”, “ci sono tanti tossicodipendenti”, “ci sono tante sardine dentro o fuori le scatole”, ci sono tanti divorzi o, meglio, rifiuti/incapacità di metter su famiglia e - una volta raramente ormai - messa su, mantenersela.
Oggi quando ‘famiglia’ - se c’è - indica tutto e il contrario di tutto.
È molto espressiva - della dubitosità della cosa - la faccia da clown che mi spia mentre sfoglio il volume, rifiutando a lui i pochi soldi che posso invece impiegare per il suo vicino di bancarella: il libro sul paese dei miei nonni.
Sentire un legame ed un’attrazione per un clown e, in contemporanea, per un volume di storia locale se pur remota, ci sta con la continua esperienza di straniamento che la vita ci impone. Fin dal mattino quando ci svegliamo.
A vedermi chiedere: ”Sono io?” o: “Ci sono ancora?” ogni volta che metto giù piede dal letto, chi mi osservasse aprire gli occhi su stanze che non conosco, mobili che non sono miei, caffettiera che non mi appartiene, troverebbe decisamente decisamente molto simile la scena alle evoluzioni di un povero pagliaccio da circo.
Piedi dentro scarpe troppo lunghe per poter mantenere la postura eretta senza problemi collaterali.
Scarpe che devi indossare perché così ha voluto chi - a vederti diritto, ben piantato sui tuoi due piedi - non ci trova nessun gusto.
Capita proprio dentro la famiglia. Quella che a camminare eretto ti ci ha educato e quella grazie alla quale, invece di un cappellino storto alla Pulcinella ora indossiamo titoli e felicitazioni.
Capita nel mezzo di un salon di ricevimento fin de siècle anche dei più importanti e snob, come li frequentava Proust, il quale - incredibilmente per un figlio - prende le difese di una madre.
Meglio: penetra con la finezza del genio i contorcimenti che sottostanno al legame affettivo in genere. Tra questi, quello totalmente gratuito, cioè la figliolanza, più drammatico e clownesco in assoluto.
Tutta la fantasmagoria di un circo non può far fronte alla paura di costringere l’altro - ma non certo per propria colpa, bensì perché questa è la natura delle cose - ad amarti.
È così che Madame de Marsantes, colta in fallo - esprimendo il suo dispiacere al vederlo andar via di corsa - a sperare che il figlio inebetito dalle pulsioni erotiche per una mondana, figlio che lei non riusciva ad incontrare mai altrove, si costringe a cospargersi di cerone da pagliaccio. Come?
Ma mentre: “mescolava tanta timidezza, per fargli capire che non intendeva violare la sua libertà, tanta tenerezza perché lui non la rimproverasse di intralciare i suoi piaceri, tanto da ‘costringerlo’ ad avvertire - ad un certo punto - che lui dovesse avvertire dentro di sé quasi la possibilità di commuoversi, vale a dire UN OSTACOLO al progetto di passare la serata con la sua amica.
Naturalmente il figliolo si infuria: e” rivolse-prosegue la voce fuori campo di Proust- alla madre i rimproveri che probabilmente sospettava di meritare egli stesso.”
Conclude il mitico Marcel: “E’ così che un egoista ha sempre l’ultima parola; dando per scontata l’irrevocabilità della propria decisione, più il sentimento cui lo si richiama perché vi rinunci è toccante, più egli  trova riprovevole, non già se stesso che vi resiste, ma chi lo mette nella necessità di resistervi, con la conseguenza che la sua durezza può giungere sino all'estrema crudeltà senza far altro che aggravare vieppiù ai suoi occhi, la colpa di una persona talmente indelicata da soffrire, da aver ragione, talmente vile  da provocargli il dolore d’agire contro la propria pietà”(il corsivo è mio).
Stante l’irrevocabilità delle nostre scelte - di cui spesso nemmeno sappiamo l’esistenza, ma che tuttavia abbiamo fatto - diventa davvero ‘indelicato’ chi ci ‘costringe’ a dover agire in modo da negare un po’ di pietà a chi pure ha ragione e sta chiedendoci - col suo dolore - un briciolo di riconoscimento dopo tutte le menzogne da noi   affastellate a baluardo del nostro egoismo.
È indelicato chiederci di essere veri.
Così la lacrima del Pierrot che mi ha fatto pensare sempre - chissà perché - a quella cancellata prima che lui, il figlio, la vedesse di tante madri.
Madri del paesino ora in Slovenia, e versate non solo certo per via del loro dolorosissimo esodo che oggi si ricorda, ma anche tanti amanti a cui viene chiesto solo di essere aiutato a dimenticare la menzogna personale.
Clown e libro sulla famiglia: una bella coppia sulle bancarelle di un mercatino di provincia.
Un circo diffuso e tutto un mondo che va dal cuore al cerone di scena.
Un circo che solo a chi indossa una maschera permette di dire a viso aperto perfino quanto un cardinale ed un papa emerito dovrebbero - secondo alcuni - scusarsi di chiedere: la verità.
Con dolore, oltre al corona virus di cui non finiamo di piangere il bollettino di morti come un bollettino di guerra, dobbiamo leggere le parole con cui due grandi di sempre - Cardinal Sarah e Benedetto XVI - ‘si scusano’ - cioè  devono sostenere - come se nella Chiesa non fosse fatto evidente di per se stesso - la loro imprudenza: dire la verità sulla fede (”Dal profondo del nostro cuore”): “A nessuno è proibito proclamare la verità in uno spirito di pace, di unità e di carità.
Guai a chi resterà in silenzio! Vae mihi si non evangelizavero” (1 Cor 9,16)!