"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Ma lei aveva quasi sempre pianto.
Probabilmente quando era giovanissima o appena sposata o con me appena nata, come si evince da qualche bella fotografia anni ‘50, avrà sicuramente riso anche lei.
La mia mamma.
Il fatto è che, sin da quando ad una persona è concesso trattenere immagini e ricordi sensibili, io di lei rivedo quasi sempre e soltanto un viso rigato dalle lacrime.
Ci sono state anche delle belle sonore risate fatte tutti assieme con lei, che dirigeva la scena da grande artista bohémienne quale solo lei sapeva essere.
Pur tuttavia sono i rigagnoli salati che scendevano dagli occhi neri e profondissimi, che associo maggiormente al suo ricordo.
Crescendo, quindi, mi sono sempre detta che per me non sarebbe stato così: i miei figli - se mai ne avessi avuti - non mi avrebbero mai vista piangere.
Perché è un dolore amaro - al di là delle ragioni che poi ho potuto e saputo dare a tutto questo piangere - quello di assistere impotente alla propria madre che piange.
Tu senti che soffre.
Non capisci perché, ma ti senti tragicamente in colpa.
Anche se tu di colpe non ne hai assolutamente.
Almeno non di quelle lacrime.
E siccome il leit motiv post-bellico è stato che era proibita l’infelicità e in maniera ancora maggiore il ‘senso di colpa’ (da cui poi tutta la sbrodolata sessantottinesca del ‘proibito proibire’) legando arbitrariamente desiderio più che legittimo di felicità coll'assoluto diniego etico ed esistenziale del dolore, ecco che siamo cresciuti convinti di dover nascondere lo scandalo del fatto che si soffre.
Se - per caso - capitava, di soffrire intendo, subito bisognava dirottare l’argomento verso i ‘diritti’ a cui - non si sa a quale titolo - eravamo predestinati, raggiungendoli per lo più con fughe vili dal reale, come droghe e musiche spacca orecchie.
In assoluto evitare che chiunque potesse farsi venire dei ‘sensi di colpa’.
Il senso di colpa poi peggiore: quello di far venire il senso di colpa.
Persino i legittimi dolori del parto, quando si andava a partorire, non dovevano essere fonte di sensi di colpa nel compagno che, insieme a te, quella avventura l’aveva messa in essere.
Così ti rintanavi nel tuo lettuccio a travagliare in solitaria e partorivi quasi chiedendogli scusa se l’ostetricia ‘moderna’ costringeva il marito ad entrare in sala parto.
Certo, a quel punto, tra il dolore per l’evento che doveva passare dalle tue interiora e il dolore di essere così sfacciatamente fonte d’ansia per chi - secondo libri in voga pieni di teorie sui parti ecologici e felici - ti avrebbe dovuto sostenere, mentre barcollava palesemente sull'orlo dello svenimento, il senso di colpa strabordava.
Pare però proprio che provare un sano senso di colpa, almeno nei confronti dell’amore più grande e più mistificato della terra, cioè verso la propria madre, sia il viatico per la felicità.
È dal senso di colpa che nasce - come spiega Mélanie Klein - quel desiderio di ‘riparazione’ che, unico fra tutti gli stimoli egoistici umani, porta direttamente ad accorgersi e prendersi cura del prossimo. Anzi è il desiderio di ‘riparare’ in qualche modo al male - reale od immaginario - che possiamo aver prodotto in chi ci ha dato la vita, che ci sentiamo di diventare creativi verso il mondo, verso l’altro da sé.
Si mobilitano le nostre migliori energie e - sempre per riparare - nascono le grandi amicizie, gli scatti di altruismo, le fantasie di costruzione di mondi migliori.
Certo, in tutto questo, può sempre riemergere l’istinto puramente difensivo che ci caratterizza come animali feriti quali siamo, ed ecco che, allora, persino l’idealità e la forza idealizzante più eroica si tramutano in scusa per sfuggire dal reale.
Sempre perché il senso di colpa - appunto maturato, forse semplicemente vedendo la propria madre, per motivi misteriosi, in lacrime - non riesce a liberarsi più di tanto dal mondo innominato delle paure.
La paura, però, è già la versione patologica del senso di colpa.
E meriterebbe un discorso a parte.
Non qui.
Quando dicevi: ”A me, i miei figli non mi vedranno mai piangere”, in realtà stavi negando loro l’accesso alla felicità.
Sembra strano, ma non lo è.
Non aver mai concepito di dover riparare in qualche modo perché sorridevi e nascondevi dietro i sorrisi - secondo le teorie applicate alla lettera del Dottor Spock - “I bambini hanno diritto sempre e comunque alla felicità”, la tua umanità ferita, bisognosa di uscire allo scoperto, ecco che tu li incatenavi ad una promessa di infelicità.
L’infelicità - divenuti grandi - di non poter mai riparare.
E cioè, appunto, di creare, fare amicizie vere e coinvolgenti non effimere per passare qualche ora di sballo, costruire mondi diversi e addirittura diventare artisti…
Sì, l’arte è il grande volto nascosto del bisogno di riparare!
Avrai ottenuto figli pragmaticamente bravi, magari con il senso pratico di come si fa un lavoro anche redditizio, capaci di mettere al mondo uno o più (non molti di più) figli.
Ecco.
Tuttavia, incapaci di incontrarsi veramente con il reale.
Che solo sorrisi non è, né mai sarà.
In più, se tu non hai mai pianto, e se tu-in quanto mamma- sei l’oggetto più prezioso a cui ancorarsi per percepirsi come persone, secondo legge di natura vuole, ecco che tu ti tramuterai magicamente nella strega peggiore del mondo qualora, un domani, piangerai.
Eh! Sì!
La mamma - oggetto - buono - da - salvare è quello che non piangeva mai.
Oggi, quella figura simile a lei in tutto (tranne quelle brutte rughe) non vorrà mica ambire a sostituirla!
Resterai pertanto eternamente e per sempre in quella sala parto dove non potevi fare altro che soffrire, ma in contemporanea doverti scusare del tuo dolore.
Non così - forse - Qualcuno, quando ci ha pensati, pensava l’amore.

immagine: Rosai - La Famiglia