Il super latitante non si muoveva da ben 14 anni da questo bilocale di un casone popolare in un quartiere popolarissimo, però a due passi dalla sua ‘amata Scampia’.
La parola ‘amata’, quasi scappata a forza di bocca al cronista che rendicontava l’operazione in grade stile, lasciava intendere quanto tutti, sotto sotto, nel mentre sentivamo la notizia del meritorio blitz, non potevamo non avvertire nel profondo: anche i boss hanno un cuore…
La cosa che a me personalmente ha lasciato esterrefatta è stato riflettere - mentre osservavo le panoramiche dell’interno del covo - in quali condizioni addirittura di monacale povertà avesse potuto accettare di vivere i ‘migliori anni’ della sua vita (dai 25 ai 39 del momento dell’arresto) un tizio che - sentendo la cronaca - aveva incassato milioni e milioni di euro in attività illecite…
La stessa riflessione che avevo fatto il giorno dell’arresto di Bernardo Provenzano, nel 2006.
Quest’ultimo si era composto a vivere in un ovile, sperso nelle campagne, per ben quarant’anni…
Non si può immaginare, confrontando con i rubinetti d’oro e le pacchianate che dovevano esprimere lo status di ricchi trovate nelle case dei Casamonica, di trovarsi sempre allo stesso modo in presenza di semplici disonesti.
O meglio, ci deve essere una radice profondamente diversa, nella disonestà di taluni.
E così, si riapre la memoria dei libri di storia quando si studiava la versione ufficiale dell’Unità d’Italia e, poi, si confrontava con autori tipo Zitara che questa Unità la chiamava tout-court “nascita di una colonia”.
Una colonia per impossessarsi della quale - in vista del lucro che uno stato qualunque come quello dei Savoia ne avrebbe tratto - a nessun livello di corruttela si era rinunciato: a cominciare appunto da coloro che con la loro ragnatela familista rappresentavano l’organizzazione del nostro grande Sud. Essenzialmente coloro che facevano da intermediari tra i grandi feudatari, spesso nemmeno a conoscenza dell’entità concreta dei loro possedimenti, e il popolino, la gente semplice.
Ma la storia è lunga e non è qui la sede per rappresentarci la tragedia di popoli, per nulla ‘retrogradi’, costretti a subire la povertà imposta dal Nord.
Basta pensare al dramma dell’emigrazione di massa degli anni a seguire alla ‘liberazione’ dai Borboni.
Ma più avanti, ancora gli Americani, prima dello sbarco ‘liberatorio’ a sua volta, avevano attivato misure di corruttela ben strutturata e garanzie di immunità a guerra finita per i rappresentanti delle ‘famiglie’.
Per questo è interessante leggersi “Il golpe inglese” di M.J.Cereghino.
Tornando alla incredibile ‘vita austera’ di boss come Provenzano e De Lauro, posso solo provare un senso di sconforto all’idea che tanto ‘eroismo’ sia dovuto confluire in un sistematico metodo a delinquere, diffuso e generalizzato.
Pochi coetanei di De Lauro avrebbero tollerato un rigore ascetico del genere di quello che abbiamo tutti veduto sugli schermi TV lui si era imposto.
Ancor meno poi, invece di stramaledire il mondo e tutto il resto, si sarebbero limitati a dire, in un momento così tragico, ”Pensate ai miei gatti”.
Allora è lecito chiedersi :perché?
Perché lo fanno?
Sicuramente, almeno in questo caso, penso che ben al di là della propria volontà, ci si trova ad ereditare un ruolo.
A seconda del ‘gruppo’ di riferimento l’individuo è sovente costretto d indossare dei panni che sono espressione per lui di una ‘gratitudine’ per non essere stato lasciato solo nella temperie del mondo. O semplicemente il segno di non poter concepire se stessi al di fuori di altro che non sia il ‘gruppo’ appunto di riferimento, in cui si è nati, cresciuti ed imparato il proprio posto nel mondo: in questo caso quello di figlio di boss e di - come naturale conseguenza - di boss successivamente.
Il padre ha iniziato e lui si è obbedientemente, da figlio per bene, adeguato. L’eredità gli è capitata tra capo e collo.
Essere ‘leali’ col proprio genitore, è accettare di partecipare di una realtà che non ti sei scelta, che è più grande di te e che - in questo caso - ha esorbitato dallo specifico della liceità o meno della questione: sei figlio.
Una verità immensa che fa amaramente andare col pensiero a come di ‘famiglia’ ormai si parli soprattutto in questo senso.
Nel senso borderline di ‘gruppo’, a prescindere dalla quantità di vero e di bene oggettivi che il gruppo rappresenti.
E questo è tipico di un’epoca in cui ‘famiglia’ come legame fondato su un senso del Destino e con le caratteristiche di esaltare la Bontà e la Verità degli individui , conta - anche all’interno di istituzioni che dovrebbero tutelarla al massimo, come la Chiesa - pressocchè nulla.
Famiglia diventa sovrapponibile a gruppo ed entrambi contano solo in rapporto alla tua debolezza da singolo.
Qualcosa che si incarica di sostenerti a misura che tu ti dimentichi di ciò che sei, di ciò che all’inizio, invece, al gruppo ti aveva spinto ad aderire.
Il gruppo diventa il contenuto di se stesso.
Eppure all’inizio altro non era, come la famiglia vera, che uno strumento perché l’individuo con le sue domande di senso autentiche, potesse svilupparsi e crescere.
Colpisce quanto Ciancimino figlio riferisce in sede processuale di come vedeva svolgersi le relazioni all’interno della ‘famiglia’, intesa come mafia siciliana: “Non appena un singolo riusciva ad avere accesso al boss per esprimere un qualunque bisogno, da quello medico a quello lavorativo, nel giro di poco la soluzione arrivava”.
La ‘famiglia’ era un sostituto della famiglia più grande che lo Stato dovrebbe incaricarsi di essere.
Dovrebbe, se non fosse espressione di interessi personalisti ad alta scala che dimenticano il piccolo, il semplice, il diseredato dalla sorte.
Ed allora arriva il gruppo, la famiglia sostitutiva.
E della naturale funzione della famiglia il gruppo a delinquere si fa realmente carico, fino in fondo.
De Lauro è stato tradito da una telefonata intercettata in cui un suo ‘picciotto’ si sfogava per il dolore e la disperazione di aver ucciso la propria donna.
Un dramma d’amore e la disponibilità ad ascoltarlo è - in buona sostanza - la fine di un terribile boss.
Ma non capiremmo nulla di questo ‘senso della famiglia’ se non tenessimo presenti le donne di questi boss.
Liberamente consapevoli di sottoporsi ad una vita di continua privazione per amore del compagno a cui hanno dedicato la vita, e disposte a non pretendere mai nulla.
La compagna del De Lauro quando mai avrà potuto andare a farsi una passeggiata col suo uomo mano nella mano?
E invece, quante coppie della società ‘civile’, scoppiano per molto meno?
Ciononostante di questa donna non risulta una parola di recriminazione, nemmeno contro la polizia.
Semplicemente sapeva che faceva parte del gioco.
Resteranno scolpite nella memoria le parole con cui ha ‘chiesto scusa’ ai vicini.
Vicini i quali nulla sapevano, ovviamente…
La dirimpettaia di pianerottolo intervistata dai molti assatanati giornalisti, così ha dignitosamente chiuso la questione: ”Ci ha detto: ’Scusate, non mi chiamo Annamaria. I’ so’ Cira’”.
“Mi chiamo” e “sono”.
Quello che ho dovuto essere e ora, invece, la verità, me stessa: Cira.
Finalmente, alla luce del sole.