"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Tanta era la difformità dai compagni, giochi, pensieri che tutti intorno facevano che dapprima si era convinto di essere un cinese.
Un cinese, ma della Cina. Non uno di quelli più americani di noi che circolano per le CHINATOWN varie delle nostre megalopoli.
‘Cinese’, quando lui era un ragazzo equivaleva ad ‘esotico’, vero, lontano, ‘altro’ nel profondo del proprio essere.
E lui era ‘altro’. Diverso.
Con lui la parola ‘diverso’ realizzava la sua semantica vera: troppo più grande per essere come tutti gli altri.
Non ‘diverso’ perché di moda, non ‘diverso’ perché abile scusa per fare i fattacci propri, e neppure ‘diverso’ per negare tutto quello che non era eccezionale come lui.
No.
‘Diverso’, con lui, si traduceva ‘meraviglioso’.
Proprio come nelle fiabe quando i due pargoletti se ne scappavano dal sentiero seminato di segnali per loro dal papà e si ritrovavano davanti una casa meravigliosa, tutta panna e zucchero, caramelle e bon-bon.
Poi, nella fiaba che tutti conosciamo, la meravigliosa diversità, diventa pericolosa gabbia di detenzione. E la vita stessa finisce a rischio.
Al netto dell’horror poi - come in ogni favola che si rispetti - sconfitto, il ragazzo di cui si narra, un giorno smise di considerarsi un cinese e optò per un treno.
Un treno ad alta velocità, anche se ai suoi tempi ancora non esistevano.
Aveva, infatti, tutto del treno: velocità e impressionante capacità di penetrazione persino nelle gallerie più buie.
Aveva, però, ahimè, un piccolo problema con gli scambi.
Di tanto in tanto, senza nemmeno rendersene conto, la sua speditezza supersonica, la sua capacità di ficcare la faccia al vento e - socchiusi gli occhi - mirare l’infinito come meta ultima intemerata, iniziava a perdere argomenti, rallentava e poi, misteriosamente, su un qualunque scambio, anche il più sciocco e casuale del percorso, deragliava.
Niente gravi incidenti, no, per fortuna.
Il ragazzo-treno, semplicemente, si arenava.
Restava lì, indeciso se prendersela con se stesso o con qualche passante casuale che, inavvertito, passava da quelle parti.
Finché un giorno, senza più binari di fronte se non un esclusivo ingarbugliamento di scambi che non conducevano a nulla, il ragazzo prima cinese poi treno, fu portato via.
In una casa di cura.
Cammina ancora però, e quanto!
Il suo cammino, adesso, è tutto su un  solo binario. E a scartamento ridotto. Percorre le vie di un paesino dove è la sua comunità terapeutica e, di quando in quando, la luce acuta che illuminava le gallerie della sua antica alta velocità si riaccende sul negozio dell’edicolante, oppure sul cartello stradale che indica l’incrocio pericoloso in centro paese.
Talora, costretto dal solito scambio dissestato che si ritrova sulle rotaie - sia pure a scartamento ridotto - eccolo che fissa e penetra la arcana bellezza dei mattoncini che compongono un muro.
No, lui non vede innanzitutto i mattoncini, come se essi potessero esistere senza il loro muro.
Lui li vede nella perfezione del loro stare assieme a formare il muro.
E, poi, vede le pietre, una per una mentre come un percorso.
Quel bellissimo percorso che si avventura tra case e dimore degli uomini che lui, dalla sua comunità terapeutica, sogna ancora come dimore che un giorno sicuramente accoglieranno anche lui.
Ma adesso, come fa?
Costretto com’è a correre, senza fermarsi mai, inseguendo la rotaia, sia pure a scartamento ridotto, che lo tiene avvinto e lo costringe a puntare avanti e macinare chilometri su chilometri…
Non importa se correre e restare fermo - per lui - coincidono ormai da tanto tempo.
La corsa è rimasta nella penetrazione intima e appassionata del piccolo mondo che lo circonda. Il mondo che misura giorno dopo giorno, camminandoci in mezzo, con passo e ritmo sempre uguale.
Sa tutto di questi ‘accorgimenti architettonici’ che tengono insieme un paese, il paese dove vive, non solo dove abita.
Infatti, per lui, anche quando lo scambio lo tradisce e lo costringe fermo immobile - correre è guardare, guardare e poi ‘vedere’.
Pare impossibile non sapere cosa mettersi addosso al mattino o addirittura, se il mattino io sarò sempre io od un altro, però capire l’esatto posto di un mattoncino, di un’edicola, di una vetrina, di un bar o di un campanile là, nel paese dove si abita, questo sì, è possibile. E, nei suoi schizzi, accade.
Perché quando non si può più correre, si guarda.
Perché, quando non si può più correre, si guarda e si guarda bene per non perdere il filo della corsa interrotta.
E, così ci si orizzonta e, forse, finalmente si può amare.
Disegnando ci si confronta con quello che c’è, che ci circonda e davanti a cui il nostro scambio interrotto diventa così piccola cosa.
Il cuore, allora, grande come è sempre stato, anche se tutto bloccato dallo scambio e dal gelo misterioso della vita, vede che nulla va perduto.