"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Clemente Rebora sta su un treno a passo lento mentre attraversa lo scalo smistamento ferroviario alla periferia est di Milano, quando nota le manovre di una locomotiva. 
E annota sul suo diario, anno 1913: ”Scandalo da giovanissimo”.
Improvvisamente, per quei lampi subitanei che lo spingeranno uno dopo l’altro ad uscire dal cerchio malato di massonismo della famiglia laica e progressista a cui apparteneva, fino a giungere a 44 anni a chiedere e ricevere la prima Comunione, Rebora “vede” qual è il trucchetto.
E lo chiama, senza mezzi termini, ’scandalo’.
Lo vede osservando una locomotiva che spinge su un binario di servizio una serie di vagoni in retromarcia, fino a che si arresta.
Non si arrestano però gli ultimi due che, precedentemente sganciati, continuano la loro corsa per un bel po’.
E paiono muoversi da soli.
È giocoforza per Rebora pensare alla sua cerchia, alle persone del suo ambiente: ”sganciate da generazioni a fondo cattoliche, caduti i principii, agiscono ancora in loro le consuetudini: ma - aggiunge amaramente - il rallentamento si scorge già in noi figli, appena appena battezzati, poi lasciati alla deriva, con immenso sbandamento e dramma; e i miei nipoti nemmeno battezzati”.
Tra vagoni e binari passa tanta vita, sempre, giorno per giorno, poi passa un poeta, e fiorisce il sentimento di acuta analisi sociale e culturale di una società intera.
Ma lo ‘scandalo’ sta ben nascosto in ognuno di noi.
Lungo i marciapiedi, in attesa di salire sul nostro di treno, commuove pensare a tutti quei vagoni - che esattamente come le persone - viaggiano al traino convinte di andare da sole.
Per non parlare di tanti che credono veramente di muoversi, sempre ed ovunque, ma restano inchiodati al loro posto.
Un po’ come il cavaliere colpito a morte ad Austerliz che, in ‘Guerra e Pace’, a guardarlo, galoppa ancora, ma in realtà più non si muove.
Così i vagoni, inerti di per sé, ma che avanzano spediti per la ragione che ci fu una locomotiva in un momento imprecisato che diede impulso, hanno una grandiosità comica e tragica insieme.
E pongono la questione del ‘traino’.
Tutti siamo debitori di un traino, sparito chissà dove chissà quando.
E su questo, nulla da dire: è così che funziona su questa terra.
Basta pensare alla nostra nascita non richiesta e sbocciata per impulso altrui.
Quello che angoscia, quasi quanto il vagone vuoto sul binario morto, notato sempre da Rebora, è l'impossibilità ormai scientificamente programmata a riconoscerlo, il traino.
Cosa che ci farebbe capire come il traino non ci basta, come sia la falsificazione del ‘prima’.
C’è sempre un prima (il giro perenne della moda, il citare a memoria monotonamente i Fondatori, lo stesso arrabbiarsi, senza riuscire a discutere, come ‘68 insegna, coi propri genitori, ecc.) di cui evidentemente non possiamo fare a meno, proprio perché ne siamo totalmente succubi.
E questo è il ‘traino’ come riduzione ahimè opportunistica del ‘prima’.
Quando il ‘prima’ non è la ‘forma’, pensavo osservando una vetrina che a prezzi scandalosi ripropone le stesse noise cose che portavamo negli anni ’70, è un puro ed arrugginito traino, pur convinti come siamo di stare facendo tutto nuovo e tutto da noi.
Si crede di differenziarsi, per esempio dai genitori, e non si fa altro che vivere di una spinta che non è mai nostra, pur criticandoli.
Invece, se il ‘prima’ è ‘forma’, tutto cambia.
La forma, secondo il vecchio filosofo greco, ti cresce dentro facendoti stare in ciò che non hai deciso, ma realizza ciò che più profondamente tu, e solo tu, sei.
È evidente che c’è chi segue il traino e chi segue - ammirandola - la forma.
Sarebbe utile comprenderlo in vari momenti della nostra vita, così, giusto, per non rischiare di pensare di correre - magari stancandosi pure parecchio - e scoprire, poi, di essere totalmente fermi.
Forse, addirittura impallinati, come il cavaliere tragico di una tragicissima Guerra senza mai Pace, mentre lo scenario, tutt’attorno, ci fa credere in corsa sfrenata.