"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Nello stesso tempo, nessuno - esclusion fatta per le deformazioni patologiche che, però, drammaticamente, confermano l’assunto che sembrano negare - può e vuole vivere da solo.
Qui il nocciolo di tutte le contraddizioni…
Sociali, penali, economiche, artistiche, sessuali.
Le contraddizioni sessuali che oggi percorrono le vie e le piazze con parate tragicomiche, in realtà sono l’espressione più eclatante della paura del diverso da sé mistificata nel diritto ad avere come compagno uno come me, un omologo.
Pensando di vincere l’ansia.
Già: l’ansia.
Quello che non sono io, per il fatto stesso che non sono io, genera ansia.
Non che, poi ,noialtri con noi stessi, ci si stia così bene.
Anzi, il più delle volte, l’altro, amico od amante che sia, ci occorre semplicemente per scaricare l’insostenibilità del confronto ‘solo a solo’ con noi stessi.
Si inventano nuovi vocaboli, ci si industria per suffragarli con il tentativo di introdurre nuovi concetti, nuove scoperte di cos’è la vita.
Mi colpisce al riguardo un ritornello drammaticamente tanto reiterato ai Tiggì dei nostrigiorni: il femminicidio.
In realtà, a me sembra  si tratti di quello che è stato sempre definito, né più né meno,  delitto passionale.
Spessissimo il ‘femminicida’ si va a suicidare nel giro di poche ore.
Denunciando così non un odio, bensì una dipendenza estrema dalla compagna da lui soppressa.
In realtà un po’ di psicoanalisi e di sana analisi sociologica permetterebbero di capire quanto endemicamente, alla base di tutto questo accopparsi, stia un sostanziale e ordinario vuoto etico.
Come sempre è stato alla base di ogni violenza, nell’arco della storia umana.
Restiamo però particolarmente smarriti quando, investimenti libidici non adeguatamente simbolizzati, costituiscono l’epilogo di forse immense storie d’amore.
Si torna - e qui è il bello - al problema dell’essere che ‘non si vede ad occhio nudo’, cioè a quell’incognita per noi sospetta che è l’atto d’esistere.
Atto che evidenzia, a chi osi guardare la realtà in faccia, che la sola possibilità di conoscere e rapportarsi di conseguenza con cose e persone, proviene tutta dalla ammissione, sia pure sconcertante, che tutto è sospeso al mistero.
La ragione non ha che un solo mezzo per spiegare ciò che non deriva da se stessa, quello di ridurlo al niente.
Ed ecco che umani uccidono altri umani.
Quando in televisione si dà l’annuncio di un ‘femminicidio’, sembra si voglia sottolineare l’incompatibilità irriducibile tra diversità.
Che - se invece che di due etero si fosse trattato di due ‘omo’ - cioè creature che rifiutano per principio la ‘pericolosa diversità’, viene surrettiziamente suggerito, non sarebbe probabilmente accaduto.
E perché si vuole surrettiziamente instillare questo dubbio?
Forse solo perché ‘omo’ inteso come simile, uguale più possibile a noi azzera (falsamente) l’urto che il ‘diverso’ introduce.
Eliminando le differenze, si eliminerebbe quindi la fatica di vivere.
Ipotesi degna della miglior mistificazione.
Se Cartesio con il suo dualismo ci ha insegnato a concepire le diversità come irriducibilità e zavorre le una per le altre, rimane però anche la poesia che  trasforma ogni oggetto d’amore in un grido appassionato a voler esistere.
Esistere con noi, ma al di là e oltre noi.
Le intenzioni assassine non necessariamente si esprimono esclusivamente tramite la morte procurata.
Più spesso intessono convivenze intere, anche lunghissime.
E sono quelle intenzioni che si incaricano di ridurre ogni volta l’altro da noi a qualcosa di controllabile e padroneggiabile da noi .
Irrimediabilmente, quando ci si innamora, il desiderio pieno di slancio verso l’altro, vira verso la necessità di ‘ridurre a zero’ questo altro.
Come per una strutturale ansia che ciò che non è me trasferisca attorno a sé la rotazione permanente del mio ego.
Tale cosa può giungere ad allarmare e spaventare anche il più romantico degli amanti.
Ma è impresa così assurda poter mantenere la permanenza  di sé, cominciando ad essere altro da sé?
L’altro mantenuto come altro, ma, nello stesso tempo, come possibilità di me, non solo ‘per’ me.
La vera fragilità, poi, che tanto parlare di femminicidio sottovaluta, è quella della famiglia.
A lei viene ascritto il reato grave di negare - quando la si lascia essere quello che veramente è - che il ‘dipendere’ da altro da sé possa non essere contro di sé.
Rifiuto quindi della figura del ‘vecchio’ e del gap generazionale, rifiuto di ogni più sano e strutturale edipo, per cui - pur avendo tanto amato padre ed madre - emanciparsi e diventare adulti può solo significare oblìo, spesso odio.
Essere una famiglia ha un solo scopo: insegnare che tutto si tiene: voglia di andare con la più schietta necessità di restare.
Famiglia è parola nata per indicare che amore di sé e affermazione di un tu non sono nemici.
Che è possibile e giusto diventare ‘grandi’ e continuare ad essere piccoli, genitori a nostra volta e  in contemporanea non per questo meno figli.
Come davanti a qualunque verità, occorre perché lo si capisca, essere liberi.
Liberi di riconoscere la fecondità dell’atto che l’essenza fa esistere.
Cioè il Mistero.

 

Lezione 4 - parte 1

 

 

Lezione 4 - parte 2