"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Non posso non udire e odo parole già sentite milioni di anni fa. Solamente, i personaggi a cui riandavo erano leggermente inferiori di numero: due, io e mio figlio.
La strada, invece, sempre quella, l'argomentare, sempre quello.
E cioè: "perché quello che è , è quello che è?"
Detta così suona molto speculativa: in realtà, da che mondo è mondo, è la classica disputa tra adulto e tre/quattrenni.
Nel trio che mi precedeva il piccolino aveva focalizzato l'attenzione di tutti i comprimari (chiaramente il centro della scena era lui) sul fondamentale quesito all'amica di mamma: "Veronica! Perché ti chiami Veronica??"
E Veronica, quasi scusandosi: "mah! Sai alla mia mamma e al mio papà piaceva il nome Veronica...".
E lui imperterrito rivolto a sua madre: "Ma hai sentito? Si chiama Veronica! Proprio Veronica!" E non pago: "Ma sai che all'asilo c'è una maestra che si chiama Veronica?"
Qui, nella massima naturalezza (perché è così che é la relazione educativa, quella vera, naturalissima) e del ruolo spaventosamente carico di responsabilità che compete all'adulto, ecco che la madre si mette a confermare la corrispondenza tra parola e realtà. Di più, tra realtà che si può dire - e dire proprio in quel modo, non in un altro - e il formarsi di un concetto. Di più, la responsabilità di garantire che la cosa o il soggetto nominato ed identificato, è lui e lui solo, anche se possa incorrere l'incresciosa esperienza dell'omonimia.
Pochi metri e parecchi anni più in là, direzione asilo anche per noi, mio figlio ogni mattina, passandoci accanto, punta il dito e perplesso mi chiede: "E chi è quello là?"
Quello là, irrigidito, con una torcia fiammeggiante in una mano protesa innanzi e un caschetto in testa, dal sottogola svolazzante da aviere inizio ‘900, svettava sulle nostre teste a mezzo busto ogni mattina dal piedistallo al centro dei giardinetti.
"È Francesco Baracca!" rispondevo regolarmente io.
E lui, ogni mattina, regolarmente fermandocisi sotto e col ditino teso, per lo più ridacchiando (chiamarsi così doveva sembrargli quasi uno scherzo...) mi chiedeva: "Lui è Francesco Baracca"? Ovvero:  "È Francesco Baracca lui?"
E così via per tre felici anni di andate e ritorni (tranne quando eravamo in bici o in tram) dall'asilo.
Rivedendo mio figlio nel bambino per mano a quella signora, la cui amica si chiamava Veronica, e riascoltando lo stesso interrogatorio - tipo, ho avuto un sussulto pensando a quanto fondamentali per la nostra crescita siano alcuni scambi di parole, le domande che facciamo e le risposte che riceviamo.
Va che un figlio chiacchierando di "banalità" mentre si fa portare all’asilo dalla madre, sta addirittura facendo prove generali di metafisica. Quindi di moralità.
Il bambino a cui viene confermata la corrispondenza tra una parola e una cosa e la predicabilità di quella parola ad altre sia pur differenti, senza negare l'esistenza di nessuna delle precedenti, sta imparando che esiste la verità.
Viene appreso che qualcosa di diverso da me è altrettanto reale di me. E nientemeno che il singolo, la sua coscienza "intesa come intuizione ultima soggettiva della realtà" (Ratzinger) non costituisce l'ultima frontiera tra sé e l'orizzonte.
Andare a spasso facendo domande ai ‘grandi’ - sempre che la risposta giunga e sia adeguata - accettiamolo che allena nientemeno che alla verità. E, come diceva il cardinal Newman: "Coscienza altro non è che la capacità di verità dell'uomo, capacità di riconoscere negli ambiti decisivi della propria esistenza una verità, LA verità."
Penso io che questo ‘allenamento’ fin da piccolissimi sia quanto poi, come sempre Newman spiega: "impone all'uomo il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla, di sottomettervisi" tenuto conto che ci capita di fare delle scelte, pur non avendone quasi mai voglia.
Sarà che i bambini di oggi all’asilo ci vanno per lo più in pullmino! Solo così mi spiego cosa possa aver spinto l'attuale occupante il soglio di Pietro a infilarsi una croce arcobaleno in onore dei giovani a cui ha dedicato l'ultimo sinodo!
L'arcobaleno:il politicamente corretto della non accessibilità della verità; il vuoto al posto di una mano di mamma che ti porta all'asilo. E oltre. Per sempre.